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Assistere a Chronicles del collettivo (LA)HORDE è come essere travolti da una tempesta. Non si tratta di una semplice performance di danza, ma di un'esperienza totale, quasi wagneriana, dove la materia si fonde con il suono, il corpo diventa uno strumento, e il palco vibra come un'entità collettiva. È forse la realizzazione contemporanea più vicina al Gesamtkunstwerk: l'opera d'arte totale che abbraccia ogni linguaggio, ogni energia, ogni respiro.
Fin dal primo istante, lo spettacolo cattura lo sguardo e non lo lascia andare. I corpi si muovono con un erotismo nervoso, quasi isterico, come se fossero figli di un'epoca ipersessualizzata che lotta contro se stessa. Si contorcono, si baciano, si allontanano, si colpiscono, come se cercassero di espellere un male interiore. È una danza di esorcismo, una liberazione senza pudore, che nella sua ferocia trova un significato: ricorda la frammentazione e il dolore della scuola di Pina Bausch, dove il gesto non è decorazione, ma reazione, ferita, sopravvivenza. Qui, la danza diventa un modo per salvarsi, un modo per affermare che finché un corpo si muove, il mondo ha ancora una possibilità di salvezza.
Ma questi corpi non rimangono mai fermi entro i confini del palco. Scivolano, esondano, invadono. Sono loro stessi il palcoscenico, un organismo unico e compatto che pulsa come un cuore collettivo. In questa densità fisica, Chronicles racconta la possibilità di una comunità – non virtuale, ma viva, sudata, carnale – in un tempo che frammenta e dissocia.
E qui si manifesta la grandezza di Marine Brutti, Jonathan Debrouwer e Arthur Harel, i tre demiurghi del collettivo, più stregoni che coreografi, capaci di orchestrare una liturgia del presente: un rituale sciamanico dove il sacro e il profano si intrecciano come vene nello stesso corpo. I loro danzatori risuonano come percussioni ancestrali: ogni battito è memoria, ogni scossa è un richiamo a qualcosa di primordiale. Eppure, tutto è immerso nella più assoluta contemporaneità.
Room with a View e Age of Content, i due movimenti che compongono Chroniclesm sono come due capitoli di una stessa storia: uno segna la fine di un mondo, l'altro rappresenta il tentativo di rinascita in un universo ormai dominato da pixel e algoritmi. Nella prima parte, la tensione collettiva, quasi rivoluzionaria, prende il sopravvento, mentre nella seconda emerge una riflessione sul virtuale, sul digitale e sul modo in cui giudichiamo, copiamo e diffondiamo. Qui, il corpo si confronta con l'immagine, la danza si scontra con il contenuto, e il gesto si oppone al consenso. Perché, in fondo, siamo nell'era del contenuto, ma anche nell'era del consenso: un tempo in cui tutto è condiviso, tagliato, remixato e imitato.
Dove TikTok e Instagram spingono verso la frammentazione, Chronicles risponde con una visione d'insieme. È una cronaca del nostro tempo, una reazione fisica a un bombardamento visivo, una dichiarazione politica del corpo che resiste. E in questa resistenza, (LA)HORDE trova la sua poesia più intensa. La danza non è più relegata a un palcoscenico, ma si manifesta ovunque: sui marciapiedi, nelle strade, sugli schermi, negli sguardi. È un atto di presenza in un mondo che cerca di ridurci a semplici spettatori.
L’ensemble del Ballet National de Marseille si muove con la fluidità di una cellula viva, cresciuta nel laboratorio del collettivo con un obiettivo chiaro: raccontare l’umanità attraverso il suo stesso cortocircuito. Il movimento è sia centrifugo che centripeto, un gioco di attrazione e repulsione. Il contatto diventa una necessità, non solo una coreografia. E la viralità, qui, non è solo un fenomeno digitale: è contagio emotivo, stupore, desiderio e sensualità.
Alla fine di Chronicles, non rimangono solo immagini, ma una scossa. Si esce con la sensazione che qualcosa sia stato toccato, forse persino guarito. (LA)HORDE non si limita a descrivere il presente: lo assorbe, lo amplifica, lo trasfigura. Loo assorbe, lo esaspera, lo trasfigura. Lo restituisce come una visione collettiva, dove la danza non è più forma ma condizione umana. Chi desidera purificarsi da questa epoca di scroll e di sovrastimoli è invitato a sedersi tra il pubblico e lasciarsi attraversare. Perché Chronicles è un rito, un’esperienza, un atto di fede nella capacità del corpo di continuare a danzare anche nel caos.
E forse, proprio lì, nel caos condiviso, si intravede la possibilità di un nuovo ordine, di una nuova genesi. (C. Bianchi e F. Catricalá)
Articolo del
16/10/2025 -
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