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La classe non è acqua
12/11/2013 4.54.26
In Brasile il calcio non è una religione, ma molto di più. E’ una fede radicatissima, un credo diffuso e giustificato dal predominio della nazionale verde oro e ha una squadra di club, il Flamengo di Rio de Janeiro, con una tifoseria che conta oltre 30 milioni di tifosi agguerritissimi.
Questo potrebbe bastare per dare la dimensione della goliardata del batterista dei Red Hot Chili Peppers Chad Smith che ieri, durante un laboratorio per musicisti a Belo Horizonte, a cui era stato invitato in qualità di grande star della serata, ha pensato bene di ingraziarsi i tifosi del Cruzeiro, dell’Atletico Mineiro e dell’America (tutte squadre locali), pulendosi il sedere con una maglietta del Flamengo ricevuta dal pubblico con una provocazione che sà molto di combine.
Peccato che il gesto da ultrà del simpatico Chad, sia stato filmato e postato in pochi minuti su youtube arrivando in tempo reale sui social network dei tifosi della squadra di Rio de Janeiro. Un’ingenuità che ha provocato insulti, proteste e minacce di morte contro il povero batterista americano, forse all’oscuro delle complesse e pericolose dinamiche che si nascondono sotto la brace del tifo calcistico; passioni ben diverse da quelle dei tifosi del NBA o dei pacati tifosi di baseball o di cricket.
A poco sono servite le immediate scuse di Chad Smith che su twitter ha maldestramente ammesso che “… i miei scherzi sulle rivalità sono andati oltre… tifosi del Flamenco (testuale) scusatemi…”. La frittata è fatta e adesso c’è solo un modo per riparare il danno… Un bel concerto gratuito di Kiedis e compagni sulla spiaggia di Rio con tanto di magliette della squadra locale. Come Mick Jagger insegna (rimane storica la sua apparizione sul palco dello Stadio San Paolo nel 1982 con la maglietta di Paolo Rossi), il calcio e la musica hanno due denominatori comuni… la passione e gli ultrà…
(f.b.)
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A Good Idea
31/10/2013 23.32.32
Lo svedese Daniel Ek ha cominciato a fare soldi sul web a 14 anni nel business dei videogiochi, per poi reinvestire gli utili della vendita della sua prima società sul nascente portale di filesharing, uTorrent e compiere un’ultima giravolta nella legalità, con la creazione di Spotify, l’ennesima stregoneria per chi vuole tenere in tasca ventimilioni di canzoni
La prima cosa che salta all’occhio, leggendo le interviste di colui che è considerato da Forbes, uno degli uomini di maggior successo del 2013, è che la su biografia è molto diversa dai secchioni di Sylicon Valley o dai businessmen di Palo Alto. Ek ha mosso i suoi primi passi da adolescente irrequieto che si applicava poco sui libri di algebra e molto sulle consolle della playsation. In Italia ci siamo imbattuti nella sua creatura Spotify, da poco tempo.
Il 13 febbraio del 2013, con grande curiosità, abbiamo scoperto che è possibile portarsi la musica su telefonini, sui tablet o tenersela sul pc, senza dover alimentare le librerie di itunes con i file mp3 recuperati chissà dove. Spotify è un servizio musicale digitale che consente di accedere a milioni di brani on demand in streaming e download tra brani di varie case discografiche ed etichette indipendenti, incluse Sony, EMI, Warner Music Group e Universal, pagando (dopo un periodo prova gratuita) un abbonamento variabile tra i 5 e i 10 euro a seconda del supporto che si utilizza.
A cinque anni dal suo debutto, la piattaforma delle meraviglie creata da Daniel Ek, a fronte dei 500 milioni di dollari girati come royalties agli artisti in proporzione agli ascolti degli utenti, ha anche registrato pesanti critiche da pezzi del calibro di Thom Yorke, ormai acceso antagonista della piattaforma svedese , ma anche da David Byrne, che ha scritto un lungo editoriale sul Guardian mostrando alcune perplessità attorno alla crescita del fenomeno dello streaming. Invece i Metallica, forse memori della catastrofe che si è abbattuta sul gruppo quando portarono in tribunale Napster, oggi si dichiarano entusiasti arrivando a dire “Daniel Ek, è un grande uomo e ha una grande anima".
Sta di fatto che oggi, con molto ritardo, la formula on streaming inventata da Ek ha obbligato la concorrenza a muoversi dopo l’annuncio che su Youtube sarà disponibile, a pagamento, un servizio premium che dovrebbe andare proprio in questa direzione. Si moltiplicano quindi le modalità di ascolto sul web nell’ottica di una sempre maggiore diversificazione dell’offerta per un’utenza che alla lunga potrebbe rimanere a dir poco disorientata. Non meraviglia, in tal senso, scoprire che a vent’anni dal funerale del vinile, nel 2013 si siano registrati dei dati di vendita sorprendenti con un raddoppio di vendite di dischi nella sola Inghilterra rispetto all’anno precedente. L’impressione è che, questa estrema diversificazione delle modalità di ascoltare musica, stia creando delle vere e proprie tribù: quelli del mp3 ,quelli di spotify, i nostalgici del cd e i pionieri del disco in vinile.
Ce n’è per tutti i gusti e per tutte le tasche, ma il mondo della musica è ormai definitivamente cambiato e quelli come Daniel Ek sono i nuovi interpreti di una frontiera delle idee che teoricamente non avrà mai fine.
(f.b..)
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Gli Arcade Fire, lo scoop e il direttore che suona Chopin
25/10/2013 20.20.57
Giusto un anno fa a Ferrara, in una delle giornate del festival di Internazionale (il settimanale di politica e attualità), mi è capitato di ascoltare in uno splendido chiostro, la conferenza di Alan Rusbridger, direttore del Guardian, una delle testate di punta inglesi che è ormai diventata un modello di come affrontare il passaggio dall’editoria tradizionale a quella digitale.
Il 56enne Rusbridger ha snocciolato senza fare una piega, l’incredibile sfida di riuscire a portare il suo giornale, con un innovativo piano editoriale, da un passivo di quasi centomilioni di euro a un graduale recupero delle perdite che, anche quest’anno confermano un trend positivo, attraverso un rafforzamento dei contenuti dell’edizione on line senza penalizzare quella su carta.
Ma Rudsbriger ha anche confessato che in tutto questo bailamme, ha vinto anche un’altra sfida con se stesso: il suo sogno da sempre era quello di riuscire ad eseguire la difficilissima prima sonata di Chopin ricominciando a suonare il pianoforte a cinquant’anni. E raccontava questa come la sua vera sfida, di molto superiore a quella di tirare fuori il suo giornale dalle paludi del fallimento.
Oggi The Guardian ha un sito ricchissimo, scoop mondiali, una partecipazione attiva dei lettori, comincia a fare qualche utile, ma soprattutto fa opinione anche oltremanica.
Dopo aver sputtanato Rupert Murdoch scoprendo lo scandalo delle intercettazioni, il Guardian ha scoperchiato la Casa Bianca con i file di WikiLeaks e la vicenda Snowden-Nsa e proprio ieri ha preceduto tutti gli altri giornali con lo scoop delle intercettazioni dei telefoni dei 35 capi di stato dell’Unione Europea.
Ma guardando la prima pagina dell’edizione di ieri non sfugge che, sopra allo strillone dello scandalo NSA campeggia il titolo di un altro articolo dedicato all’uscita di Reflektor, l’ultimo disco degli Arcade Fire che si annuncia come una delle cose più interessanti del 2013.
Dietro questa sottile sfumatura c’è molto da imparare, oltreché essere ammirati per la malizia editoriale di associare uno scoop cosi clamoroso con il lancio di un disco. Per dare ossigeno al coma profondo dell’editoria tradizionale (e soprattutto di quella musicale) in Italia servono giornalisti con le palle, nuove idee dirette, semplici e d’impatto e direttori che si rimettano in discussione, magari imparando a suonare una sonata di Chopin per capire come oltrepassare i propri limiti.
(f.b.)
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Il miglior album di tutti i tempi (mesozoico compreso)
24/10/2013 0.34.42
Che senso hanno le top list dei grandi giornali musicali per decretare interminabili elenchi tra i migliori 100 o 500 migliori dischi della storia? E soprattutto esiste qualcuno che alla fine potrà mai essere d’accordo su una classifica che è la media delle classifiche di eserciti di giornalisti senza gridare allo scandalo quando si scopre che il proprio album preferito è al 456° posto?
Chissà chi ha cominciato nella storia della musica questa assurda pratica di volere a tutti i costi decretare tra tutti i dischi degni di questo nome, il migliore in assoluto.
Curiosità che potrebbe trovare una risposta dopo qualche anno di ricerca da topi di biblioteca, ma il punto è un altro. E’ plausibile che ultimamente, le megaclassifiche sui miglior album di sempre, nascano anche dalla necessità di rivitalizzare il mercato discografico (vedi l’inaspettata recrudescenza nella vendita dei vinili), o per orientare le masse di neofiti disorientati dai download e dall’eccesso di offerta di musica regalata in formato MP3. Ma il punto è ancora un altro.
Quando scorro i numeri monografici del Rolling Stone, oppure vado sul sito di NME o su quello di Billboard, che per tradizione sputano fuori le loro best list da 500 frutto di strani algoritmi tra le classifiche di centinaia di giornalisti che avranno fatto pure la notte per consegnarle, mi chiedo, se tutto questo lavoro alla fine non rischi di scontentare gli stessi lettori o gli stessi compilatori delle mega classifiche.
Sarebbe meglio prendere un abbonato o un lettore ad estrazione e chiedergli: facci la lista dei tuoi dieci album di sempre. Sarebbe più credibile e, una volta tanto, renderebbe merito ad un approccio più genuino al complicatissimo compito di scovare quello che è artisticamente e musicalmente impossibile, ovvero, trovare quello che è il migliore disco di sempre….
p.s. comunque il mio album di sempre è stato il primo regalo in vinile, un doppio staccato di Tommy degli Who , due copertine funeree viola e blu con tanto di candelabri (per la cronaca in posizione n. 96 della super classifica del Rolling Stone) (f.b.)
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Letter to Miley Cyrus (AKA Hannah Montana)
20/10/2013 23.56.54
Sufjian Stevens, genio ormai conclamato tra le nuove leve della musica statunitense e non solo, non ha resistito. E dal suo blog ha confezionato una lezione, tanto ironica quanto frustrante, al grande fenomeno globale dell’ultima ora: la ex candida Miley Cyrus. E’ un assist troppo ghiotto perché è la classica scusa per prendere un piccione e una fava.
Per molti Miley Cyrus è l’innocente alter ego di quella Hannah Montana che, per anni, ha spopolato su Disney Channel con una sit com plastificata, rassicurante e per nulla trasgressiva. Il classico leit motiv ereditato dai cartoni della Marvel, della supereroina che fa una vita normalissima, ma che in realtà nasconde l’identità della popstar adorata da milioni di teenager americani. Per altri, Miley Cyrus è quel fenomeno da fiera dell’eros che agli ultimi MTV Awards ha spiazzato tutti tirando fuori tette e culo e inscenando una serie di pose degne di youporn.
Il risultato è stato, naturalmente, spettacolare: la ex diva dei teenager americani (e ormai globali), è schizzata agli onori delle cronache rosa, totalizzando milioni di click su youtube e 200.000 followers in più su twtitter e facebook nel giro di poche ore.
A questo punto, dopo quasi due mesi di levata di scudi e di ohhh di meraviglia, arriva la lettera di Sufjian Stevens, sferzante, a tratti professorale e per molti versi inattesa. Nei suoi testi (vedi Get it Right), la sboccata Miley Cyrus, o chi per lei, ignora le regole più elementari della grammatica anglosassone.
A parte la garbata ironia, la lettera di Suffjan Stevens è un chiaro gesto di resa. Ormai le pose della ex-adolescente Miley Cyrus hanno turbato gli animi anche delle anime più pure. Oppure, per chi si danna a creare qualcosa di nuovo e di veramente artistico, il successo prepotente della biondina di Nashville ha provocato una evidente frustrazione…
Sta di fatto che, agli occhi di noi poveri mortali, Miley Cyrus con il suo sguardo da aguzzina del marketing è risultata molto più disperata di milioni di artisti che si guadagnano il pane con i denti e con l’ingegno.
Sono solo piccole intuizioni, e non è malocchio, ma Illinois di Sufjan Stevens è un capolavoro e quello che ha fatto la ex Hannah Montana negli ultimi due mesi è solo plastica da raccolta indifferenziata.
(f.b.)
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Motorhead, la messa non è finita
19/10/2013 2.38.49
Lemmy Kilmister, la quintessenza dell’anacronismo, è in realtà la figura più rivoluzionaria che ancora calchi le scene dei palchi di mezzo mondo, sotto le effige della sua creatura: i Motorhead. L’uscita del loro ventunesimo album, Aftershock, è una bella e buona provocazione. Dal preascolto si capisce che non è cambiata una virgola nella formula, un muro di suono condito dal ruggito inconfondibile dell’immortale Lemmy che sta li a dire “fatevi sotto, criticatemi, trovate tutti i difetti che volete, ma alla fine… noi siamo i Motorhead”.
Ed è così da sempre, non è una fase del gruppo più hard rock di tutti i gruppi hard rock, è cosi dalla loro prima uscita del 1977, con l’omonimo album. E a seguire per tutti gli episodi della saga che, nonostante le numerose variazioni di line up, hanno confermato la granitica fissazione di Kilmister di portare ancora in giro, dopo oltre trent’anni, un verbo inconfondibile, quello della coerenza. Li ho visti nel 1983 al Tenda a Strisce e poi li ho ritrovati nel 2007 allo Stadio Olimpico come gruppo spalla degli Iron Maiden… Eppure la forza dei Motorhead è sempre la stessa, nessuna flessione e soprattutto la certezza che finchè Lemmy avrà fiato continuerà a fare il suo dovere con la sua creatura. Forse perché non saprebbe fare altro. Ma noi che ci siamo affezionati, riusciamo ancora a trovare quella genuina energia che faceva traballare l’Hammersmith nel mitico tour del 1981 dove i Motorhead potevano tranquillamente appendere le chitarre al chiodo dopo aver incastonato una delle migliori cose della musica rock (in assoluto).
E a tutti quelli che sono ancora convinti che i pezzi dei Motorhead siano tutti uguali, non è roba per voi. Significa che non li avete mai amati…
f.b.
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