Per chi, come me, si diverte a parlare di musica o, più in generale, di un qualche argomento che lo tocchi, e decide di farlo mettendo del suo, inteso in qualche modo come privato, che sia vita, trascorso professionale od opinioni, in quello che scrive, evitando gli sterili saggi brevi, ed anzi, andando incontro a lungaggini ovviamente controproducenti, visto che la soglia di attenzione media è quella di un procione sotto MDMA, la cosa più complicata da trovare è l’inizio dell’articolo: bisogna sempre trovare un qualche escamotage che si colleghi, in un modo o nell’altro, all’album di cui si sta per parlare.
Bene, pensavo che la forzata reclusione del momento potesse farmi venire in mente qualche idea originale. Ma, visto che, fondamentalmente, la mia maggiore occupazione è stata farmi le pippe, più o meno mentali, chiuderò questo incipit che, come avete visto, è stato comunque sgangheratamente portato a bordo, parlando di nuovo della necessità di raccontare dei grandi album.
Anche perché, nel tempo che è adesso, credo che con la musica possa e debba esserci una sorta di scambio, un do ut des: tanto la musica può farci bene, a livello emotivo, quanto noi possiamo fare bene alla musica, sostenendola e scoprendone di nuova.
Credo anche di aver ampiamente chiarito quale sia il mio ruolo, non tanto un critico, quanto un “divulgatore”, di quart’ordine sicuramente, ma sempre divulgatore.
Ed il fatto di navigare al largo della maggior parte del mainstream nostrano non significa che voglia fare il saccente o l’hipster del cazzo che deve per forza trovare la chicca. Anzi, significa cercare di rendere una proposta un po’ più di nicchia quanto più conosciuta possibile, sapendo che, fortunatamente, è gente che non si vende al mercato. Proprio per questo oggi parlo di un artista fondamentale come Paolo Benvegnù.
Fondamentale perché, al momento, per lirismo onirico e scrittura immaginifica, non ha praticamente eguali nel panorama italiano: ascoltate Hermann o H3+ e comincerete a capire di cosa parlo.
Ma soprattutto ascoltate il suo nuovo album, Dell’odio dell’innocenza, che esce in un momento in cui, di lavori del genere, si sentiva la necessità assoluta.
E’ un album squisitamente politico, già per il semplice fatto di porre l’amore come antidoto, gesto, questo, davvero rivoluzionario.
Non manca l’onirismo, la tensione verso l’impossibile propria dello stile di Benvegnù, nonostante, a suo dire, non abbia messo mano nei testi, avendoli trovati in una busta a lui recapitata, con solo il titolo scritto sopra. Cosa che mi sembra un po’ come il falso manoscritto di manzoniana memoria, ecco.
Fatto sta che il fantomatico autore dei testi deve aver studiato molto bene lo stile di Benvegnù, perché le canzoni gli calzano a pennello, e sono piene di un bisogno comunicativo che, nonostante le ritmiche non incessantemente incalzanti dell’album, sgorgano fuori con una potenza che ancora non mi era capitato di incontrare, usando, se serve, parole abbastanza dure ed affilate, tipo “Io conosco gli umani e preferisco le pietre”, o “parlami di come abbiamo fatto a trasformarci in veleno, da vergini di Dio a tiranni” per farvi una idea.
I testi sono montati alla perfezione su degli arrangiamenti abbastanza cupi, come detto non molto incalzanti a livello ritmico. Le musicalità sono decisamente ruvide, molto zeitgeist 2009, ricordano, per basso marcato e chitarre elettriche distorte, Giorgio Canali e Cesare Basile. La chicca è il theremin su “Infinito 1” (sia messo agli atti che il theremin è uno strumento per il quale impazzisco. Se volete fare definitivamente colpo su di me, adesso sapete come fare, ndr).
Da tutto questo viene fuori un album che, come detto, è fondamentale. Parla, con una lucidità deflagrante, di smarrimento, di disillusione concreta e di odio rabbioso ma ingenuo. E’ catartico, ti smarrisce definitivamente per darti una mano a ritrovarti. Ed ora come ora, scusate se è poco.
Voto all’album: 9.5.
Pezzo preferito: “Infinito 1” per il theremin, “Pietre” per il testo
Articolo del
15/03/2020 -
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