L’importanza assunta dall’Art Ensemble of Chicago nel corso di una carriera ormai cinquantennale è assoluta. Un percorso iniziato negli Stati Uniti ancora prima dell’esordio discografico “People in Sorrow” (1969), in un contesto di coraggiosa sperimentazione espressiva, nel campo della musica e della letteratura, in cui la liberazione dai vincoli delle strutture armoniche e l’importanza attribuita all’improvvisazione si mescolavano all’elaborazione di idee libertarie e all’affermazione e rivendicazione della identità culturale degli afroamericani, alla riscoperta e alla valorizzazione delle loro radici.
Nel recente, splendido doppio album “We Are On The Edge: A 50th Anniversary Celebration”, l’Art Ensemble of Chicago ha riproposto la propria formula difficilmente classificabile: atmosfere talora oniriche (come nelle iniziali Variations and Sketches from the Bamboo Terrace e Bell Song, e in Mama Koko), talora sospese e inquietanti (We Are On The Edge); dissonanze (I Greet You with Open Arms); sonorità che riescono ad evocare un che di primordiale (Chi-Congo 50); giri melodici ipnotici e accattivanti (Saturday Morning).
Il concerto è un flusso incessante di suggestioni, introdotto da una sorta di rituale sciamanico. Roscoe Mitchell e Don Moye, insieme al resto del gruppo, ammaliano i presenti, poi gli fanno intraprendere un viaggio in un caleidoscopio mutevole di suoni ora striduli, ora avvolgenti, con interludi percussivi, passaggi in cui l’esuberanza si stempera per creare un’aria di mistero, e fugaci squarci di melodia.
Numerosi i “pieni e vuoti” in cui risaltano solo alcuni strumenti, ma quando l’esecuzione coinvolge la band al completo, il suono prodotto è lacerante, maestoso e viscerale.
Impossibile, naturalmente, ravvisare qualcosa di lontanamente orecchiabile: chi pensa che la musica “free” consista nell’esecuzione di note in cui ognuno va per i cazzi suoi (per citare testualmente le parole ironiche di un giornalista lette qualche settimana fa in una testata specializzata) di certo non cambierà idea dopo questa esibizione. È puramente una questione di abbandono: un lasciarsi andare, e farsi trascinare dalle vibrazioni prodotte sul palco; in caso contrario, lo spettacolo si sarà trasformato rapidamente in una tortura intollerabile.
Di fatto, alla fine della serata, tanti abbandonano la Sala Sinopoli in un silenzio quasi riverente, probabilmente ancora rapiti dalla performance fuori dal comune offerta dal complesso
Articolo del
05/10/2019 -
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