“Quando, nel 1970, Fabrizio De Andrè incideva “La Buona Novella” si era in un periodo “particolare”: da una parte le teenagers che si strappavano i capelli alla notizia che “Let it be” sarebbe stato l’ultimo album dei Beatles, dall’altra i giovani sessantottini che manifestavano in piazza cantando gli Inti- Illimani.
Proprio questi ultimi (i sessantottini, non gli Inti- Illimani, ndr) rimasero negativamente sorpresi dalle mosse discografiche del cantautore genovese: “Come, noi scendiamo per strada, col rischio di farci manganellare, e lui, che dovrebbe essere dalla nostra parte, ci parla di Gesù?” Di primo acchito potrebbe anche sembrare che avessero ragione a contestare… in fondo, il disinteresse di un cantautore come De Andrè verso la contestazione giovanile faceva rumore.
In realtà, “La Buona Novella” è esattamente l’opposto di quanto può sembrare, è probabilmente il disco più politicizzato di Faber, anche più di “Storia di un impiegato”. “La Buona Novella” racconta dell’uomo e del fatto che spesso, quest’ultimo (e con esso il concetto di “umanità”, intesa come sentimento di comunanza), è superiore al divino, pur con tutte le sue imperfezioni. E’ un disco che rende giustizia: rende giustizia a Maria bambina, strappata a tre anni dai suoi giochi per essere portata al tempio, e poi, con l’arrivo del suo “Maggio che si tingeva di rosso”, delle sue prime mestruazioni, ripudiata dagli stessi sacerdoti. Rende giustizia al dolore di una madre che perde il figlio, indipendentemente dal fatto che la sua origine possa essere più o meno divina.
Rende giustizia anche a Tito, il ladrone buono, quello che chiede di poter essere salvato, quello che in punto di morte dice alla madre che “nella pietà che non cede al rancore” lui ha “imparato l’amore”, quello che, nonostante sia uno scarto della società, si permette di demolire non tanto i dieci comandamenti, quanto la visione bigotta ed ipocrita che troppo spesso si ha e si è avuta di essi. “La Buona Novella” è un disco quasi nietzschiano, perché se è vero che, secondo il grande filosofo tedesco, le chiese sono “le fosse e i sepolcri di Dio” (cfr. “La Gaia Scienza”, aforisma 125), De Andrè nel disco riesce a spogliare il Cristianesimo di quella cappa di mestizia di cui è stato avvolto, riportandolo al messaggio iniziale e “puro”: condivisione ed eguaglianza”
Circa due anni fa usavo queste stesse parole (ed ovviamente, vista la mia prolissità, anche tantissime altre) per presentare un mio spettacolo, appunto, su “La Buona Novella”. E credo che, al netto del mio narcisismo ripugnante (ma d’altro canto, se non mi cito io, chi cazzo dovrebbe citarmi?) siano delle parole abbastanza valide per introdurre un discorso su questo album enorme.
In realtà, come si può facilmente intuire, il mio è un discorso valido “a metà”: spiega, per sommi capi, cosa c’è dentro l’album, in forma quasi romanzata e, soprattutto, funzionale ad un contesto di presentazione di uno spettacolo (che mi stava quasi costando una querela, ma queste sono altre storie, ndr). Ovviamente “La Buona Novella” è tanto, tantissimo altro. Ed è uno di quei lavori che non risente affatto del passare del tempo, nonostante, converrete con me, cinquant’anni non sono esattamente robetta.
Stiamo parlando di un disco che fu un vero atto di coraggio artistico, civile, musicale e letterario: mettere mano ai Vangeli Apocrifi, alle letture “scomode” della chiesa, sfavillanti di bellezza, poesia ed umanità, per tirarne fuori un disco anarchico, sovversivo ed, appunto, incendiariamente umano. Raccontare dell’uomo attraverso L’Uomo, “il più grande rivoluzionario della storia”, talmente rivoluzionario che non sono bastati duemila e passa anni per farci capire cosa volesse dirci.
Raccontare di tutto questo in un periodo in cui non si poteva non parlare di politica in modo diretto. Tant’è che gli ascoltatori di allora (tra cui militavano molti dei nazisti della canzone d’autore di adesso, ndr), blanditi dai fumi sessantottini, non ci capirono un tubo e s’indispettirono, prendendo Faber per reazionario e non comprendendo la potenza politica del messaggio. Che è, invece, decisamente deflagrante. E non solo per “Il Testamento di Tito”.
Anzi… andiamo un po’ per gradi, tenendo presente che il formato migliore per questo album, vista la sua natura di concept, sarebbe il vinile, i cui due lati dividono perfettamente le canzoni lungo un arco narrativo: Lato A che racconta di Maria, Lato B che racconta degli ultimi momenti di Cristo, e del contorno di questi ultimi momenti.
Il disco si apre con i venti secondi di coro dai tratti apocalittici di “Laudate Dominum”
Poi comincia il racconto delle vicende di Maria. E comincia con “L’Infanzia di Maria”, brano che si apre con un arpeggio alla De Andrè, su cui sono narrate le vicende dell’infanzia di Maria, rinchiusa nel tempio da quando aveva tre anni, successivamente ritenuta impura, all’arrivo delle prime mestruazioni e, per questo, “sorteggiata” attraverso un segno divino, agli anziani del paese . La calma dell’arpeggio, a questo punto lascia spazio ad uno scatenato intermezzo orchestrale, avido ed incessante, come gli sguardi degli uomini a Maria bambina. Poi torna la calma: Giuseppe prenderà in affido la bambina, il ritorno dell’arpeggio trasuda della stanchezza di quel “reduce del passato” che si vede “assegnata da un destino sgarbato una figlia di più senza alcuna ragione”. La prende, la conduce alla sua casa, e parte, rimanendo via per quattro anni.
“Il ritorno di Giuseppe” si apre su una trama musicale orientaleggiante, che accompagna Giuseppe lungo le insidie e la solitudine del suo ritorno a casa. E qua, per la prima volta, c’è il vero ritorno all’umanità dell’album, un richiamo diretto e preciso: Giuseppe porta a Maria una bambola (consideriamo che, secondo gli Apocrifi, Maria aveva circa tredici anni), cercando di farla ritornare “a quei giochi lasciati quando i tuoi anni erano così pochi”, e cercando di fare giustizia a quella gioventù mancata. Nell’abbraccio che segue, Giuseppe si accorge che Maria è rimasta incinta.
E Maria, confusa ed in lacrime, racconta cosa è successo, in quello che, gusto personale, è il brano più riuscito di tutto l’album. “Il sogno di Maria” è un brano enorme, per potenza poetica e per atmosfera: è misterioso, rarefatto ed onirico, esattamente come il titolo suggerisce. Ed è, nel testo, talmente immaginifico da risultare commovente: “io per un giorno, per un momento, corsi a vedere il colore del vento” è un verso che, personalmente, non smette mai di commuovermi e che, perdonatemi, ma non riesco a tener fuori la mia vis polemica neanche quando parlo di un distillato di bellezza come questo pezzo, dovrebbe far fare un serio esame cognitivo ai detrattori di De Andrè. Giuseppe non dice nulla, si chiede solo quale dei suoi figli possa averla messa incinta, chi sia questo “angelo” che “alla fine di ogni preghiera contava una vertebra della mia schiena”.
“Ave Maria” è il brano che chiude il Lato A del vinile, fa capire che Gesù è nato, ed è una delle più alte “preghiere laiche” mai rivolte ad una donna e ad una madre, anche qui di una potenza emotiva incredibile, adagiata su un delicato arpeggio di piano, con il coro che vocalizza in sottofondo e l’intervento degli archi sul finale.
Il passaggio temporale e stilistico che si concretizza con l’inizio del Lato B è crudo e drastico. Siamo a qualche giorno prima della crocifissione, c’è silenzio e si sente solo il ritmico battere di pialla e martello del falegname incaricato di costruire le croci. “Maria nella bottega del falegname” parla con quello che, suo malgrado, si trova ad essere il fornitore degli strumenti di morte, mentre fuori il “popolo” comincia a predisporsi per seguire l’esecuzione. Il brano è molto scarno nelle strofe, mentre gli interventi del coro strizzano l’occhio al prog.
E questo mi dà spazio per una precisazione: a suonare con Fabrizio ci sono I Quelli, il nucleo primario della Premiata Forneria Marconi. C’è un ragazzotto bresciano, fresco di conservatorio, tale Mauro Pagani, che proprio lì verrà a contatto con la futura PFM. Ci sono due giovanissimi e sconosciuti musicisti, uno suona il violino, l’altro la chitarra classica, Angelo Branduardi e Maurizio Fabrizio (l’autore delle musiche di “Almeno tu nell’universo” e “I migliori anni della nostra vita”, giusto per intenderci). Gli arrangiamenti li cura quel genio di Gian Piero Reverberi, che conosceva Faber già dalla lavorazione di “Senza orario senza bandiera” dei New Trolls, di cui era stato, anche in quel caso, arrangiatore. Alla produzione c’è Roberto Danè, che tornerà a collaborare con De Andrè in “Storia di un impiegato”.
Tornando a noi, il pezzo prosegue con “Via della Croce”, l’unico pezzo dell’album in cui la figura di Gesù è “centrale”, nel senso che è il destinatario del pezzo, ma il vero protagonista del racconto è il contorno, il popolo che lo “accompagna” al calvario. Uno sfrenato rincorrersi di chitarra e tamburello fotografa tutti i protagonisti della Via Crucis.
Ci sono i padri dei bambini uccisi durante la strage degli innocenti, che trovano finalmente “vendetta” per il lutto subito, ci sono le vedove, smarrite dalla imminente perdita del loro ormai unico difensore, ci sono gli apostoli, che, per paura di far la stessa fine del loro Maestro, sono più impegnati nel non farsi riconoscere che nel piangerlo. C’è “il potere vestito d’umana sembianza”, che tira un sospiro di sollievo nel vedere Cristo “incapace di nuocere ancora”. E ci sono i due ladroni, Tito e Dimaco, compagni, loro malgrado, nel dividere il destino di morte con Gesù, soli e pianti solamente dalle madri.
E proprio le madri, per la seconda volta nell’album, sono le protagoniste di un’altra delle vette poetiche dell’album. “Tre Madri” è un brano dalla bellezza straziante, colmo di umanità e di amore. Anche qui, è l’arpeggio di pianoforte a farla da padrone, ma stavolta accompagna il pianto delle madri sotto le croci. L’intervento del violino fa acquisire ulteriore pathos al pezzo, mentre le lacrime di Maria, con quel suo “non fossi stato figlio di Dio, t’avrei ancora per figlio mio”, sono l’immagine dell’umanizzazione dei personaggi di cui parlavo all’inizio.
La potenza civile dell’album, che pure si trova anche nel resto del lavoro, esplode in tutta la sua grandezza in “Il Testamento di Tito”. Un ladro, un ultimo, uno scarto della società, per di più moribondo, demolisce sistematicamente tutta l’ipocrita moralità da baraccone del cattolicesimo.
“Lo sanno a memoria, il diritto divino, e scordano sempre il perdono” ed altre bordate, tutte pronunciate da uno che in vita sua ha collezionato più sbagli che altro, che per quegli sbagli sta pagando, e che si prende il lusso, nonostante la sua posizione, di dire “no”. Dire no all’ipocrisia, dire no a dei dogmi imposti dal potere. E’ pura disobbedienza civile, quella di Tito, non prova nessun rancore per quello che ha fatto. Nell’ultima strofa, però, prova dolore per un innocente, condannato alla sua stessa fine. Gli ultimi due versi, però, toccano il picco d’umanità del disco, De Andrè riesce a pennellare alla perfezione quella che è l’essenza della figura di Cristo, lo fa con due versi: “nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore”.
Il brano che chiude l’album è un ribaltamento della condizione iniziale, è “Laudate Hominem”. L’atmosfera è molto simile a quella del “Laudate Dominum” iniziale. Poi, però, c’è quasi uno “squarcio nel cielo di carta” musicale, un’ apertura, che coincide con il “Non posso pensarti figlio di Dio, ma figlio dell’uomo, fratello anche mio”. Che è la chiave di lettura di tutto l’album. E che mette in guardia da una certa tendenza autoconsolatoria di molti cattolici, quel “Beh, Gesù è figlio di Dio, non possiamo raffrontarci.” Chiaro che se venisse pensato come, appunto, “figlio dell’uomo, fratello anche mio”, il suo passaggio sulla Terra ed il suo agire obbligherebbero qualunque uomo ad un’autoanalisi mostruosa.
“La Buona Novella” risulta un disco fondamentale a vari livelli. E’ fondamentale nella carriera di De André: l’incontro con Reverberi e le prime collaborazioni con PFM e Pagani lo faranno uscire da quella dimensione “solamente” cantautorale, fatta quasi esclusivamente da chitarra e voce, che ne aveva contraddistinto i primi lavori. E’ fondamentale in generale per la musica italiana: è uno dei primi album giocato su alternanze di stili e commistioni stilistiche, forse il primo a lasciar intendere che anche i cantautori possono avere delle grandi musiche dietro. E’ fondamentale a livello civile: racconta delle storie, mette davanti a delle azioni, smuove, per forza di cose, delle riflessioni, ha una potenza testuale dirompente, delle vette letterarie incredibili. E soprattutto è il messaggio di un uomo per altri uomini.
Articolo del
30/04/2020 -
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