Quando leggerete questa intervista sarà il 25 Aprile.
E non lo dico solo per la sua “vera” data di uscita. Lo dico anche perché, citando male Gramsci, spero che ogni giorno possa essere, per tutti noi, “25 Aprile”.
Spero per tutti noi che ogni nuovo giorno possa essere pregno di libertà, liberazione, memoria, canto e Resistenza.
Spero che ognuno di noi possa ritrovarsi (o riscoprirsi) partigiano, membro attivo e resistente di un unico corpo.
Spero che ognuno di noi possa, in maniere sempre più cosciente ed attiva, innaffiare costantemente quel grande giardino che chiamiamo “Storia”.
Alla fine sboccerà un fiore…
… il fiore del partigiano
Morto per la libertà.
Buona lettura.
E buon 25 Aprile, ora e sempre Viva la Resistenza!
Cosa significa “resistere” attraverso la musica e, soprattutto, cosa significa farlo oggi, in una condizione che, seppur sotto forme differenti, non è meno fascista di quella del ventennio?
“Resistere”, in particolare oggi, vuol dire tentare di mettere in equilibrio ciò che si dice con come lo si dice (e questo è già il mestiere dell’artista), ma anche di metterlo in equilibrio coi luoghi nei quali lo si dice. Ovvero se io canto una canzone di resistenza, non solo devo scrivere in maniera “partigiana”, pensando di infastidire almeno qualcuno, ma lo devo fare anche da un palco dove tutto sia dignitoso.
Quando un’artista arriva a far paura ad un regime, a tal punto da eliminarlo, come fu per Victor Jara, o cercare di ostracizzarlo, come capitò a Vladimir Vysockji?
La censura è da sempre la passione di ogni totalitarismo, fino ad arrivare alla censura della vita stessa dell’artista.
Le canzoni possono, se non cambiare, almeno “indirizzare”, e penso a Lluis Llach o Josè Afonso, in qualche modo la storia?
Le canzoni si infilano in quell’intercapedine che sta fra le storie e la Storia, a volte mettendo in relazione le une con l’altra. In questo senso sono utili a trovare il risvolto collettivo di storie individuali.
I “cantastorie di protesta”, se vogliamo chiamarli così, si possono anche definire storici, o quantomeno coscienze civili? Penso sempre a Lluis Llach e “Campanadas de morts” o al nostro Claudio Lolli con “Agosto” o “Piazza bella piazza”.
Vi è una grande tradizione di arte impegnata, nella poesia, nel romanzo, nella pittura... la canzone essendo un genere popolare si presta bene a testimoniare gli umori popolari, a fotografarli quasi in presa diretta.
Abbiamo parlato della canzone di protesta più incendiaria, poi di quella storica. Adesso arriviamo a quella satirica, segnatamente a Fausto Amodei, Brassens o il già citato Vysockji. Come mai il potere ha tanta paura di una risata o di uno sfottò, e soprattutto è ancora valido il vecchio “ridendo castigat mores”, nella musica come nell’arte in generale?
Sono tutte armi culturali differenti: il cannone, il fucile, la scimitarra, il fioretto... nessuna di queste armi ferisce di per sé e nessuna è di per sé “giusta”, ma tutte sono valide se sorrette da una coscienza critica attiva. Fare delle grandi canzoni comiche è molto più difficile che farle tragiche, perché la comicità è più caduca, c’è l’effetto barzelletta, in cui si ride solo la prima volta... ho quindi la massima ammirazione per chi - come quelli che hai citato - ci riesce.
C’è un aggettivo, deinòs, che gli antichi greci utilizzavano per l’uomo, e significa che è in grado di compiere tanto azioni splendide, di alto ingegno, quanto azioni miserabili ed abiette. Mi piaceva, in qualche modo, cercare di trasportare questo aggettivo nel mondo della canzone impegnata: ci si trova, spesso, davanti a pezzi molto poetici ed, appena “svoltato l’angolo”, a pezzi molto crudi. Ti voglio citare qualcuno che dovresti conoscere... da un lato la delicatezza profonda di “Straniero” o “Matteotti”, dall’altro la crudezza accusatoria ed incazzata di “Montecalvario” o “Mastrogiovanni”. Che ne pensi, e che differenza di percezione dell’argomento trattato c’è alla base di questa duplice poetica?
Sono fasi della vita personale e della vita collettiva... in passato mi sentivo più vicino all’esperienza dei cantautori che mi avevano ispirato, si parva licet, Guccini o de André. Col tempo mi trovo non più “incazzato”, ma semplicemente ritengo più morale dire pane al pane, senza troppi giri di parole... sperando comunque di mantenere alto il profilo letterario e musicale di ciò che canto. Ecco, questo direi che ho conquistato con l’esperienza: non per forza un brano da cantastorie è meno poetico di una delicata elegia lirica.
Nel processo creativo che vi porta spesso a parlare di ribelli (e mi vengono in mente, oltre alle tue “Frizullo” e “Maddalena di Valsusa”, anche “Dal carcere” di Gianni Siviero o molti brani del “nostro” De Andrè), vi muove più una sacra indignazione o la volontà di scorticare il perbenismo della “Borghesia” di lolliana memoria?
Onestamente la borghesia mi pare così tanto in crisi d’identità che trovo poca soddisfazione nella provocazione, mi sembra assai più interessante raccogliere dal punto di vista emotivo le idee che circolano nell’aria.
Dove sta l’urgenza (o l’emergenza o il bisogno, fai tu) di (ri) cantare Bulat Okudzava?
Mi son sempre parse canzoni bellissime, “essenziali” da molti punti di vista, un canzoniere molto bello e anche diverso da ciò che io faccio come autore, e infine ci dava un’idea completamente nuova della cultura russa, di un periodo che conosciamo male.
Parafrasandoti, l’amore, inteso come una forma di umanità empatica, ostinata ed estrema, è l’unica forma di resistenza possibile al momento?
Non solo al momento. Il fatto che la rivoluzione sia un atto d’amore e non di rancore è da sempre una mia profonda convinzione.
In quasi ultima sede mi piaceva parlare di un paio d’album che trovo importanti di questi tempi: “Temuto come grido, atteso come canto” di Michele Gazich e “Parole Sante” di un genio teatrale “prestato” alla musica come Ascanio Celestini. Qual è l’importanza di continuare a fare album del genere?
Il primo è il punto più alto della traiettoria, piena di grandi canzoni, di un poeta-musicista che io stimo profondamente, Michele Gazich, appunto e che ha coraggio e grazia, caratteristiche che raramente si trovano assieme. Il secondo, il disco di Celestini, lo avevo trovato un disco molto maturo dentro e fuori il teatro (che è, come hai evidenziato tu, la prima attività del suo autore) e mi aveva da subito fatto sentire molto in sintonia non solo con le tematiche ma anche con i moduli espressivi di Ascanio.
Non potevo non chiudere con Ivan Della Mea: arriverà, prima o poi, una “Nave dei Folli eletta a ragione”?
Me lo auguro, ma non si vede all’orizzonte... di certo se mai quella cosa che confusamente chiamiamo “sinistra” dovesse rinascere, lo dovrebbe fare su un piano rivoluzionario e tenendo al contempo conto delle diversità... restiamo di vedetta.
Articolo del
25/04/2020 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|