Sto per parlare di nuovo di Dario Brunori, questa volta della presentazione di “Cip!” che, per chi vivesse sulla luna, è il suo nuovo album.
Ma prima di raccontare cosa ci ha detto domenica scorsa (si parla del diciannove gennaio) ai Candelai, voglio un attimo prendermi le prime righe per far due considerazioni. Così, nella mia vena polemica, ribalto anche la normale consecutio di un articolo.
Parto dicendo che fare il giornalista musicale in Sicilia, nella provincia di Palermo soprattutto, è una impresa ai limiti dell’impossibilità. E certamente non lo dico per farmi bello. Purtroppo è con molta amarezza che scrivo certe cose, ma ogni tanto bisogna cercare di farsi sentire. Il primo punto è che gli artisti, vuoi per la distanza, vuoi per le infrastrutture vergognose, vengono davvero pochissimo. E già partiamo male, ma, appunto, viste certe condizioni da terzo mondo, non possiamo biasimarli troppo. Aggiungiamoci che vengono quasi sempre a fine tour (che siano presentazioni o concerti), con un gran carico di stanchezza e con delle schedule di robe da fare piene zeppe. E, giustamente, ti saluto interviste. Aggiungiamo ancora che, spesso, i promoter lasciano a desiderare, o, più semplicemente, sono molto venali, diciamo così. E va a finire che gli accrediti spuntano il giorno stesso del concerto, che le mail vengano ignorate o scompaiano nei meandri della casella spam, che ci si comporti con una strafottenza fuori dal comune. Il paesaggio, come vedete, non è idilliaco. E lo dice uno che un po’ di organizzatori, più o meno di presenza, li conosce. Insomma, questa è la situazione iniziale. In questa panorama, quella offerta dai Candelai si è sempre distinta come una oasi di pace e tranquillità, vuoi per la serietà, vuoi per le proposte che danno, vuoi anche per il pubblico che frequenta gli eventi. E fino a qua niente da dire, anche domenica si sono distinti in tutto questo. Il punto della questione non sono loro, ovviamente. Il mio interesse si sposta verso la Feltrinelli di Palermo, che, per chi scrive, è praticamente una seconda casa, lo dico da subito. Succede che la Feltrinelli mette a disposizione circa 300 pass per assistere al “Parla con Dario” , un faccia a faccia col buon Brunori, che fa da “preambolo” al firmacopie. Chi non è in possesso di questi pass non può accedere allo spettacolo, ma può, ovviamente avendo il disco, prendere parte al firmacopie. Almeno in un primo momento, ma dopo ci arriviamo. Il problema è in sé e per sé il meccanismo dei pass: già abbiamo detto che di gente ne circola poca, se poi, quando vengono, facciamo diventare l’evento elitario, abbiamo finito di ammazzare il circuito. Sarà un gatto che si morde la coda: non ho diritto al pass perché sono finiti? non compro il disco, non compro il disco non vado all’evento, non vado all’evento soldi in meno a chi organizza. E così non va. Ma il capolavoro dei capolavori è stato il rendere anche il firmacopie evento riservato solo per i possessori del braccialetto- pass, con tanto di modifica all’evento facebook. E con buona pace delle persone che erano fuori in attesa. Mai come questa volta mi sono vergognato di essere un giornalista e di avere un accredito (direttamente dalla Picicca Dischi), nonostante fossi lì (anche) per lavoro.
Adesso, dopo la polemica fra me ed il sottoscritto, andiamo al racconto della giornata. Dario inaugura un nuovo format, quello delle “domande in scatola” , scritte dal pubblico su dei foglietti, rigorosamente timbrati “Cip!”, e poi estratte a sorte. Ne viene fuori un ritratto dell’album ancora più completo, fra ironia ed autoironia, ( “che è quello che ci rende veramente unici” ). Ma anche fra impegno civile, bisogno di comunicare e ricerca speranzosa di gentilezza e garbo, come nella migliore tradizione brunoriana. E’, e cito le parole di Dario, “un disco molto spirituale, ma dal tono giusto per parlare di certi argomenti, come l’accettazione della morte, della precarietà della vita” , una grande occasione per diventare più buoni, più empatici. Si parla anche delle ispirazioni, da quella dettata da una quasi sindrome della veduta d’insieme, dal rivolgersi pensando al “noi” piuttosto che all’ “io”, come accade agli astronauti che tornano sulla Terra, dopo averla vista un puntino in mezzo al nulla, a quella poetica, da fanciullino pascoliano.
Non mancano gli spunti filosofici, volendo anche esistenziali. come sempre raccontati dalla solita, ironica leggerezza del cantautore calabrese. Si parla di dolore, di felicità, soprattutto di accettazione, che “non è rassegnazione, non è un disco consolatorio. Non è un disco che ti dice che andrà tutto bene tanto per dirlo. E’ un disco che mette di fronte all’esistenza anche di quello che non vorremmo esistesse.”
Brunori è un ottimo padrone di casa, scherza col pubblico e regala momenti memorabili, ai limiti del vero e proprio cabaret d’alta classe, fra autocanonizzazioni ( “Brunori San” ) e finzioni di ego smisurato ( “Adesso faccio la “setta dei pettirossi”, mi travesto come Osho, con la pettorina rossa, e faccio Brunori Sasho” ).
Poi prende la chitarra. Ci canta “Andrà tutto bene”, “Per due che come noi” e “Il mondo si divide” . E si concretizza quella enorme capacità di cui parlavo nella recensione di “Cip!”, quel saper dare cazzotti emotivi con una leggerezza disarmante. E quando, simpaticamente, dice che il suo pubblico è masochista, beh… ha ragione: ridursi coscientemente con gli occhi lucidi, un sorriso sulla faccia e le emozioni in frantumi non è da tutti.
Non so se sia masochismo. Sicuramente è bisogno di sentirsi raccontati. Ed è bisogno, anzi, addirittura avida sete, di bellezza e poesia.
Quindi, beh… lunga vita a “Brunori San”!
Articolo del
23/01/2020 -
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