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Gigi D’Alessio è più indie di te (ovvero “l’alternativo è tuo papà”)
07/01/2016 19.19.40
C’è un simpatico giochetto che impazza su Facebook in questi giorni: “Sai distinguere Gigi D’Alessio dall’indie italiano?” (si trova "Qui" ). Il quiz è davvero intrigante, perché mette in contrapposizione Colui che viene indicato e sbeffeggiato come l’Antimusica in generale (le ultime: Gianluca Grignani doveva per forza sbronzarsi per poter duettare con lui; il mème con D’Alessio che regge un cartello con scritto “O mi fate entrare in questo gruppo o pubblico un nuovo album) e Coloro che sono rappresentati come il bene supremo e –ahinoi! – incompreso della Nuova Musica Italiana. In realtà le cose non stanno affatto così e i risultati pubblicati su Facebook da chi ha giocato col quiz ne sono la conferma. In sintesi, chi ha grande dimestichezza con l’indie italiano fa risultati alti, dato che, con ogni probabilità, ne riconosce i testi; la maggior parte delle persone ottiene cinque risposte esatte su dieci domande, il che equivale, in pratica, a rispondere a caso, completamente disorientati; e c’è chi, perfino tra i musicisti con una storia importante alle spalle, non va al di là di uno sconfortante tre su dieci. Cosa ci insegna questo divertente giochino? Nulla che non si sapesse già, benché fosse negato con ferma convinzione dai sostenitori del cosiddetto indie italiano. Ovvero che – perlomeno sul piano dei testi – l’indie italiano di oggi (e si tratta di nomi osannati come Nuovi Vati, come Ministri, Colapesce, Maria Antonietta, Iosonouncane, Dente e qualcuno che non riconosco) non è affatto meglio del bistrattato Gigi D’Alessio. E per diversi motivi. Uno: le immagini e le tematiche dell’indie cantautorale o meno sono le stesse di Gigi D’Alessio. Due: spesso usano quasi le stesse parole. Tre: sorprendentemente, almeno nei passaggi citati, i testi di D’Alessio – duole ammetterlo, ma la verità prima di tutto – spesso sono artisticamente e poeticamente migliori. Da qui si ricava la moralina di questa storia: e cioè in primis che l’indie italiano, cantautorale o no, ha smesso da tempo di rappresentare una visione del mondo alternativa a quella del tamarro. E quindi l’hipster di oggi non è altro che la versione colta, socialmente affermata, spesso di buona famiglia e buona posizione sociale del suddetto tamarro, che ha l’unica sfortuna di essere povero e non alla moda. Sono entrambi personaggi di Checco Zalone, insomma: o ripuliti o nature. Ma, dico io, ve li immaginate Le Orme, la PFM, gli Area negli anni 70 avere gli stessi testi di Massimo Ranieri? I Litfiba, i Diaframma o i CCCP negli anni 80 scrivere le stesse cose di Fiordaliso o Spagna? Gli Afterhours, i Subsonica, i Marlene Kuntz, i CSI negli anni 90 cantare più o meno le stesse parole di Zarrillo o Fiorello? In secundis, il triste stato presente della musica italiana sta in questa omologazione totale: figlia della stessa cultura televisiva di 25 anni fa in cui già prosperava Gigi D’Alessio questa generazione di musicisti pseudoalternativi (e so di usare un termine demodé), perlomeno quelli osannati dagli addetti ai lavori, non ha uno straccio di visione del mondo differente da quella imperante. È il trionfo del (non) pensiero unico. E questo per quanto riguarda le parole. Attendo con timore un analogo test sulla musica.
(r.s.)
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C’era una volta Dave Grohl
28/08/2015 16.01.53
C’era una volta una scheggia impazzita che dopo aver contribuito alla fulminante ascesa dei Nirvana ed aver assistito impotente alla loro dissoluzione, si è rilanciato sul treno del rock’n’roll alla guida di una cosa chiamata Foo Fighters che nel tempo ha rafforzato facendola diventare una delle ultime band rock con il seguito dei vecchi tempi.
Questa è la parte emersa di Grohl, chi lo ha seguito con più attenzione sa che dalla conclusione della sua esperienza con i Nirvana, l’iperattivo Dave ha contribuito in maniera spesso sotterranea ad alcune delle cose più interessanti di inizi anni 2000. Prima con i Queens of the Stone Age, poi con il side project dei Probot e recentemente con Sound City.
Tutto questo perfettamente in linea con la filosofia di Grohl di ricercare di valorizzare gli outsider, di rimanere agganciato al mondo dei musicisti che si guadagnano il pane senza scorciatoie o che dopo il successo sono finiti ingiustamente nell’ombra. Sonic Highways, l’ultima produzione disco/video, è stata la celebrazione di tutto questo.
Quasi la fine di un percorso iniziato alla fine degli anni ottanta, quando il giovane musicista di Washington ha cominciato a muovere i primi passi nella scena punk americana.
Cosa c’entra con tutto questo il Dave Grohl che suona sul trono di chitarre o quello che fa le manifestazioni sul pick up con le guardie del corpo per un contro corteo omofobo? A che giovano a Grohl le milioni di visualizzazioni su youtube del suo messaggio ai mille di Cesena che hanno fatto l’esibizione per averli in concerto al Manuzzi?
Per chi lo ha seguito nel tempo è la fine di un lungo ciclo creativo e anche di uno stile sempre ai margini del mainstream, anche se lo stesso Grohl ha ammesso che non sapere neanche quanti soldi ha in banca gli ha cambiato la percezione della vita.
Pietra Tombale su uno degli ultimi superstiti del big rock ormai è solo circo e show mediatico
(f.b.)
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Album dell’Anno
01/12/2014 12.48.43
Chissà quando è cominciata la retorica proclamazione dell’album dell’anno. Un tempo ci si basava sulle classifiche stilate dai giornali di musica principali, all’estero come in Italia.
Un tempo esistevano ancora dei parametri certi e in alcuni casi erano i dati di vendita a dirimere il dubbio tra chi fosse il campione dell’anno solare.
Poi la musica si è scomposta in download, in quei singoli venduti sulla piattaforma di iTunes e poi in tutta quella valanga di mp3 e mp4 che hanno riportato i gusti su standard più immediati, come ai tempi del juke box.
Rimane ancora miracolosamente viva l’arcaica tradizione di cercare e proclamare il vero album dell’anno, quello che ha fatto tremare le vene e smuovere le coscienze oltre il semplice appeal commerciale.
E’ un esercizio praticato da giornalisti ed appassionati per identificare quella “cosa”, nuova o vecchia che sia, che è più completa delle altre. Quell’opera immaginata su una distanza più lunga di un semplice singolo e che rifletta un’idea omogenea ed imprevedibile.
Cosi anche quest’anno, in mezzo al marasma di cd e file decompressi, scopriremo che ci sarà un album che più degli altri merita il palmares di disco dell’anno, anche se sotto sotto ognuno di noi, la propria perla se la tiene gelosamente nascosta sotto il cuscino.
(f,b.)
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Dave For President
20/11/2014 15.11.42
Da molte settimane andava avanti il countdown che annunciava l'uscita del nuovo album dei Foo Fighters. E alla fine è arrivato. Sonic Highways non è solo il nuovo disco del gruppo, è un'opera ambiziosa sia dal punto di vista tecnico che da quello comunicativo. Registrato in otto diversi e prestigiosi studi, da New York a Los Angeles, passando per Chicago, Austin, Washington, Cleveland, Seattle, Sonic Highways fotografa per ogni tappa la personalissima lettura dell'evoluzione della musica americana secondo Dave Grohl.
Il tutto immortalato in un documentario in otto puntate che in queste settimane sta facendo il giro del mondo. Un'opera ambiziosa e anche discutibile ma anche sorprendente. L'idea di promuovere Sonic Highways come corollario delle molte storie di gruppi e musicisti raccontate nel documentario è vincente.
Lo sforzo di rendere omaggio ai grandi e ai "minori" del scena punk, rock e underground della storia musicale statunitense, si rivela utile per dare la dimensione di come e dove sono cresciuti i compagni di viaggio della famiglia musicale di Grohl.
Un risvolto umano intriso di piccole emozioni che stride con lo slancio globale della multinazionale Foo Fighters pronta a riconquistare il pubblico a suon di concerti in giro per mezzo mondo secondo lo stile delle grandi rock band.
È la sfida lanciata da Dave Grohl uno degli ultimi grandi supereroi ancora convinto che il rock non sia morto.
(f.b.)
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Rottamati
18/11/2014 11.32.17
La formula è sempre la stessa e, addirittura, non c’è neanche lo sforzo creativo visto che la canzone utilizzata per raccogliere fondi da utilizzare in Africa per contenere l’emergenza del virus Ebola, è sempre “Do They Know It’s Christmas?”. Capofila della nuova campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi? Sempre lui, Bob Geldof che insieme a Midge Ure, nel 1984, riuscì a raccogliere otto milioni di sterline con il singolo destinato a finanziare progetti contro la fame nel continente africano. Un ritorno che fa molto discutere, non tanto per le buone intenzioni, quanto per lo scarso tasso di inventiva che sta dietro a questa riesumata cordata benefica di grandi pop star riunite da un personaggio ormai logorato e poco credibile, quale Bob Geldof rappresenta oggi nel panorama musicale mondiale. La speranza è che dietro questa operazione “coscienza pulita” possa emergere qualche nuova idea che possa coinvolgere anche nuovi protagonisti dentro e fuori il mainstream musicale. Bono, Geldof o chi per loro hanno speso molte energie e molta credibilità per sensibilizzare la grande platea ai drammi della povertà e alle ingiustizie della globalizzazione che, soprattutto in Africa, continuano a generare disuguaglianze e povertà. Ma non possono essere loro i capofila della nuova generazione di artisti che lanciano un grido di allarme per le emergenze nel mondo. Ormai la loro reputazione è satura, si sono giocati tutti i bonus ottenendo, in alcune circostanze, anche risultati inaspettati. Adesso non basta mettere dietro al microfono gli One Direction o Adele per attirare le simpatie e le sterline dei benefattori occidentali. Serve qualcosa di nuovo e di più potente. E soprattutto di più credibile
(f.b.)
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Momenti di Gloria
17/07/2014 12.09.36
Ricordo la sera dell’inaugurazione alla Sala Sinopoli dell’Auditorium di Roma. Era il 21 aprile del 2002 ed ebbi la fortuna di assistere tra le prime file all’esibizione di Patty Smith, unica eccezione “rock” in un palinsesto che nelle intenzioni delle origini doveva votare la nuova grande opera alla musica colta con qualche rara concessione ai grandi nomi della musica volgare.
L’atmosfera che si respirava al tempo era quella di un protocollo austero e autorevole fatto, giustamente, di rigidi controlli con tanto di accompagnamento alla sedia numerata. Insomma, l’Auditorium partiva alla grande come una delle strutture di qualità dove sentire la musica (colta e non) seduti su una comoda poltrona, spegnendo i telefonini e seguendo anche una disciplina rigida sull’orario di inizio dei concerti: se il programma diceva nove si iniziava alle nove.
Da allora qualcosa è cambiato, comprensibilmente con le esigenze di sfruttare al massimo le potenzialità della struttura e anche per dare spazio a tutte le forme di arte possibile che potessero essere ospitate negli spazi dell’Auditorium (ivi comprese convention aziendali o mostre sul calcio).
Ma un punto di non ritorno (salvo clamorose svolte autoritarie), è stato superato con l’invasione di palco durante il concerto di Damon Albarn che con il suo innocente sorriso ha di fatto richiamato centinaia di spettatori a saltare e cantare in mezzo a cavi e musicisti nella più totale impotenza del personale di controllo.
In quel momento è stato a tutti chiaro che nulla potrà essere come prima, la linea è stata superata e il palco dell’Auditorium sembrava quello selvaggio dell’ Uonna Club (storico locale punk romano). Chissà cosa avrebbe pensato di tutto questo Gianni Borgna, uno dei grandi sostenitori dell’Auditorium Parco della Musica… sicuramente a suo modo avrebbe sorriso e apprezzato
(f.b.)
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