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Chi non ricorda Hannibal Lecter ne “Il silenzio degli innocenti” (titolo originale “The silence of the lambs”) e la sua estrema acutezza mentale, congiunta a uno sguardo beffardo, mentre parla con l’agente del FBI Clarice Starling?
Un film grazie al quale Antony Hopkins, che interpretava il ruolo dello psichiatra e criminologo cannibale, pur apparendo solo per un quarto del tempo totale (25 minuti dei 118 dell’intero film), vinse il premio Oscar come miglior attore nell’anno 1992, facendosi conoscere al grande pubblico più per questa magistrale interpretazione che per altre, ben più importanti dal punto di vista artistico.
Hopkins seppe conferire al personaggio, un killer spietato e cruento, il fascino particolare della perversione estrema congiunta a una raffinata signorilità.
Questa duplice personalità si ritrova nell’autobiografia dello stesso Hopkins, “We Did OK, Kid” (titolo italiano “È andata bene ragazzino”), uscita in contemporanea mondiale il 4 novembre, particolare coincidenza con la data dell’alluvione di Firenze, città della quale Hannibal Lecter mostra i disegni da lui realizzati all’agente Starling.
A ben vedere questa duplicità è presente anche in altri personaggi interpretati da Hopkins, specialmente quelli di alcuni film, come il maggiordomo Stevens in “Remain of the day” (Quel che resta del giorno), con la sua anaffettività e incapacità di gestire le proprie emozioni, contemporanea al senso del dovere portato fino al parossismo, tanto da fargli privilegiare i doveri del servizio alla veglia del padre morto per un malore.
Anche in Solace (Premonitions) Hopkins ha questo doppio atteggiamento: il dottor John Clancy, il personaggio da lui interpretato, mostra un distacco estremo dalle proprie emozioni mentre descrive, con fare trasognante, la morte della figlia malata di leucemia.
Viene quindi da chiedersi quanto Hopkins si sia visti assegnati ruoli con quelle caratteristiche e quanto invece abbia trasferito sui personaggi che gli venivano proposti la propria stessa personalità.
L’autobiografia ripercorre non solo i momenti importanti, dal punto di vista professionale, della vita del grande attore, ma anche quelli critici, di smarrimento, fornendo un’immagine veramente particolare.
Scritto in uno stile anche troppo asciutto, stringato, rapsodico, con periodi a volte composti da sole due o tre parole, il testo parte con i ricordi di Hopkins bambino, con una bella foto dei tempi della II guerra mondiale dove si vede Anthony all’età di quattro anni sulla spiaggia di Aberavon Beach (Wales) con il padre.
Lui stesso mostra come tutta la sua gioventù sia stata quella di un ragazzino disorientato, solo e vulnerabile, insicuro, tanto che per molto tempo, quando lo sceglieranno per qualche film, si chiederà “Do they like me? Am I going to get the part?”.
Il titolo del libro (“We Did OK, Kid”) è la considerazione dell’ormai anziano Hopkins che, dopo tutto quel che ha passato (e che ha fatto passare anche ad altri...), la sua vita è andata bene.
Oppresso dalla personalità del padre fornaio, incattivito dalle basse condizioni economiche familiari ma, più che altro, dal basso ceto sociale, umiliato anche a scuola da un insegnante, a causa della testa sproporzionata rispetto al corpo tanto da avergli procurato l’appellativo di “Elephant Head”, avrà una forte reazione a questa situazione, che lo porterà a dedicarsi alla recitazione, ritrovandosi nel giro di dieci anni a recitare in teatro addirittura con Laurence Olivier.
Hopkins ragazzo denota il comportamento tipico degli introversi, che preferiscono stare da soli anziché in compagnia, vivendo nel proprio mondo interiore, dedicandosi a suonare il pianoforte e disegnare piuttosto che praticare sport e altre attività con i propri coetanei.
Lui stesso ricorda di aver percepito la propria situazione caratteriale, che da adulto gli verrà diagnosticata come sindrome di Asperger, tant’è che ricorda di aver udito una voce interna: “One day I’ll show you. I’ll show both of you”, a testimoniare la dicotomia che trasfonde nei propri personaggi e che è quella della sua stessa vita.
Prova amore per la figlia Abigail, ma l’abbandona quando la stessa ha quattro anni, insieme alla madre e prima moglie di Hopkins.
Rivedrà la figlia sporadicamente per poi non avere più rapporti e non la cercherà neanche quando lei avrà una malattia oncologica molto grave.
Nell’autobiografia se ne dispiace, ma alla fine se ne fa una ragione (“I had no choice”), pur ammettendo la colpa (“That hardness is my default”) e soffrendo di questa situazione (“I will always be sorry for hurting her”) manifestando ancora la natura dicotomica dei suoi sentimenti.
Hopkins spiega come il problema dell’alcolismo, ripresentatosi più volte nella sua vita e dal quale poi è guarito essendo ormai sobrio da oltre cinquanta anni, abbia condizionato fortemente la sua esistenza a partire dal rapporto con la prima moglie.
Nel descrivere aneddoti riguardanti sia la vita personale che quella professionale il libro scorre velocemente, mettendo a nudo le fragilità di quello che è uno dei più grandi attori viventi, recuperando ricordi, sensazioni, emozioni vissute, ma anche comportamenti, come le risposte laconiche che fornisce su argomenti importanti, quasi non lo riguardassero.
Parla del suo lavoro di attore in modo demistificato e pur ammettendo il successo avuto, lo riporta nei binari di quella che per lui è essenzialmente una professione, privilegiando così la descrizione di vita alla magnificazione del ruolo.
Il tutto in un dialogo interiore che aiuta a comprendere la mente del grande attore Anthony Hopkins e il rapporto con i personaggi che ha interpretato, primo fra i quali se stesso
Articolo del
04/12/2025 -
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