Nato dal convegno internazionale Mina. La voce del silenzio. Presenza e assenza di un’icona pop, tenutosi al Dams di Torino nel 2021, questo volume collettivo cerca di inquadrare da un punto di vista accademico un’interprete, il suo fenomeno e quello che ha significato per il nostro Paese. Dopo tanti anni è naturale che si avvii un’analisi critica ai massimi livelli, il che è una buona notizia perché ne segnala l’importanza (e accade con più frequenza nel mondo anglosassone, più cosciente del significato sociologico di mode e fenomeni pop), seppure anche la prossima musealizzazione, inevitabile, giacché tempus fugit.
L’altra buona notizia è che questi saggi accademici sono scritti in maniera accessibile: i termini specifici vengono sempre spiegati e le analisi sono comprensibili a chiunque non sia cresciuto su TikTok e abbia un diploma di scuola superiore (beh, professionali escluse). Mai titolo poteva essere più azzeccato, data la volontaria sparizione dalle scene di Mina, interrotta solo dalla diretta internet del 2001: la voce di Mina è quella che proviene da un silenzio che è metafora del buio che la avvolge, rischiarato solo dall’immagine che sceglie di dare di sé attraverso del copertine dei suoi dischi. Coerentemente, il volume è quindi strutturato in tre parti: “Ascoltare Mina”, “Guardare Mina” e “Immaginare Mina”, in cui i contributi, sempre interessanti anche se talora non fondamentali, convergono nel dare un’immagine a tutto tondo della Tigre di Cremona, a partire dai contributi riuniti nel 1998 nel volume Mina. Una forza incantatrice a cura di Franco Fabbri e Luigi Pestalozza e dagli studi di Elena Mosconi.
Vediamo di riassumere. In sostanza, Mina istituisce in Italia il genere della “canzone di qualità”, sulla scorta dell’esempio di Sinatra, di cui si pone come corrispettivo italiano: stessi la predilezione per gli standard, reinterpretati personalmente, e l’interesse per la musica brasiliana. Di suo, Mina ci mette una costruzione del proprio repertorio su “due colonne portanti - un canzoniere senza tempo e l’attualità che sfugge all’effimero”, con un’attenzione all’estero che allo stesso tempo ne fa la “principale mediatrice culturale che l’Italia possa vantare” e rende la “canzone italiana un prodotto più allineato ai gusti e alle tendenze globali” (Prato).
Altri specifici: la costruzione di un’identità di donna forte, sempre in scena e quindi consapevole dell’immagine che vuole dare di sé, anche quando si fa tramite di emozioni, cosa che risalta particolarmente nella sua interpretazione del repertorio battistian-mogoliano, in cui il Lucio nazionale si mostra invece come uomo incerto, debole, fragile e sopraffatto dall’emotività. Il controllo di sé e dei propri mezzi, però, si esplicano in un modello interpretativo coscientemente melodrammatico, intendendo il termine non come riferimento all’opera lirica, ma a un eccesso che pone al centro dell’attenzione il proprio corpo e vuole suscitare reazioni emotive in quello degli altri, facendo interagire voce, gesto, sguardo, movimenti, abiti, trucco. In questo contesto rientrano anche la predilezione per la canzone napoletana, cantata “non a modo suo, ma come va interpretata” e le cui scelte sono guidate dalla “tensione creativa dei brani, ricchi di pathos, allusioni e allegorie” (Corbisiero e Maturi).
Mina è sempre stata esagerata, ma con juicio. La ragazzina ribelle che si faceva chiamare Baby Gate e amava Elvis urlava e si muoveva scompostamente, rivelando una confidenza col proprio corpo (esaltata dal cinema) tipica della nuova generazione che approda alla giovinezza negli anni ’50, in fretta lascia spazio alla signora borghese degli anni ’60, ancor di più dopo lo scandalo della maternità dovuta alla relazione adulterina con Corrado Pani (l’adultero era lui, chiariamo). Accettata, ma normalizzata del tutto mai: sobria ed elegante sì, ma padrona di sé al punto da disconoscere “apertamente alcuni ruoli e comportamento autorizzati dal patriarcato”, come la “procreazione all’interno del matrimonio”, e quindi “le nozioni considerate naturali di coppia, matrimonio e maternità” (D’Amelio). Non a caso, prima faceva la pubblicità della birra, poi della pasta e della cedrata. In questo senso il suo personaggio divistico (la star persona) segnerà il passaggio dalla vecchia televisione didattica alla televisione moderna, basata su ritmo, sguardo, esempio concreto. Ma è proprio col suo corpo degli anni ’70, che ingrassa al di fuori dei canoni ammessi dallo sguardo maschile o maschilista (cui si sottrarrà con la sparizione dalle scene), che diventerà icona gay , come chiarisce Guarracino, sottolineando la connessione intima tra donne grasse e uomini gay, perché le prime trascendono le categorie di produzione e riproduzione, dando voce al rifiuto e allo scarto. E poi, certo, un repertorio di canzoni in cui Mina, la sicura di sé emancipata, recita però spesso, molto spesso, la parte della donna abbandonata a sola.
Dopo la sparizione, ecco che di quel corpo un tempo così scrutato non rimane nulla se non un’immagine atemporale eppure mutante, sottratta alla corruzione e alla decadenza fisica perché quasi metafisico, tanto che se ne aspetta a nuova versione in una “continua riproposizione finzionale di un io-soggetto che non è mai davvero unificato, ma sempre e solo scomposto” (Spaziante).
In definitiva il volume è consigliatissimo: segnalo la prefazione di Ivano Fossati e la cura maniacale e preziosa delle immagini di Vito Vita; clamoroso però, anche se non tale da annullare il giudizio positivo, l’errore che fa dei Beatles gli ispiratori di Baby Gate con Elvis, a p. 97: lo pseudonimo Baby Gate fu usato da Mina per cinque 45 giri usciti tra 1958 e 1959; Love Me Do, primo 45 giri del Beatles, uscì il 5 ottobre 1962. Grande, Mina, e divina: ma divinatrice proprio no. Occhio.
Articolo del
10/12/2024 -
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