Un codice che regola l’uomo e ne genera i cicli e ricicli storici. Sono pattern e sono abitudini. E poi il grande caos che trova ordine. Il suono dei Freak Motel è qualcosa di molto interessante: “Human Codec” si snocciola dentro tele dipinte da macchine digitali dentro cui l’uomo ha assoluto controllo e decisione. Dunque sembra analogico e sembra arrivare dal futuro. Dal jazz alla world passando per le industrie pesanti, il post-rock e una Berlino glitterata di affascinanti luci di scena. È un’esperienza onirica questo disco dei Freak Motel.
Penso che la parola contaminazione sia il centro di tutto. Ma non contaminazione di popoli o di cultura... ma di tempo. Nel disco sento la stessa cultura che incontra le varie espressioni che ha acquisito a spasso nel tempo. Ha senso secondo voi? Sì, nella nostra musica c’è sicuramente molta contaminazione. Quella culturale è presente, anche se spesso in maniera velata, attraverso campionamenti provenienti da varie parti del mondo e da cellule ritmiche extraeuropee e non convenzionali. Ma è vero anche che questa contaminazione si manifesta soprattutto nel tempo, più che nello spazio. Sentiamo la stessa cultura musicale attraversare diverse epoche, assumere forme ed espressioni differenti lungo il suo percorso storico. La matrice jazz, ad esempio, per noi è soprattutto un’attitudine: significa rischio, improvvisazione, esplorazione. A questo si intrecciano tutte le influenze che fanno parte del nostro background, che spaziano tra circa ottant’anni di musica. Ci muoviamo liberamente dalla sperimentazione elettronica alla psichedelia, passando per il post-rock, mantenendo sempre uno sguardo aperto e curioso verso ciò che è stato e ciò che potrebbe ancora nascere.
Il codice: altra espressione ormai divenuta centrale nella vita di tutti. In che modo il codice si fa suono per voi? Nel nostro concept, la parola “codice” assume molteplici significati. In questo caso, il codice diventa musica perché ciò che suoniamo è il risultato di esperienze vissute, ascolti passati, influenze interiorizzate che hanno modellato il nostro modo di pensare e creare musica. Questi elementi, una volta assorbiti, diventano per noi un codice estetico: una grammatica personale attraverso cui comunichiamo, interpretiamo e trasformiamo il mondo in suono.
E in che modo il suono poi genera codice? Noi partiamo dall’idea che il suono sia già di per sé un codice, composto da vari parametri come altezza, timbro, dinamica, ritmo. Ogni scelta sonora porta con sé un significato, anche se non esplicito. Sta poi a chi ascolta decodificarlo, reinterpretarlo attraverso la propria sensibilità, il proprio vissuto e i propri riferimenti estetici. In questo senso, il codice si completa solo nell’incontro tra chi crea e chi ascolta.
Tutto questo è solo relegato al messaggio del disco o avete pensato anche ad una deriva tecnologica per il disco stesso? Non so… l'ascoltatore può immergersi in un'altra esperienza a latere grazie ad un codice… Non abbiamo seguito una deriva tecnologica, perché l'interesse principale è stato rivolto al codice dal punto di vista umano. Da qui nasce il titolo “Human Codec”: ciò che ci interessava era esplorare i codici di comportamento, di relazione, di scambio culturale che regolano le interazioni tra le persone. Oggi siamo già circondati da infiniti codici digitali, realtà aumentate, esperienze interattive… ma noi volevamo fare un passo indietro, o forse di lato: concentrarci sull’essere umano come decodificatore e codificatore di esperienze, emozioni, linguaggi. In un certo senso, Human Codec è una risposta emotiva e analogica a un mondo che è sempre più digitale.
E tutto questo perché non è ancora approdato ad un video? Come ve lo immaginereste? Ci abbiamo pensato diverse volte, ma la verità è che le idee che ci venivano in mente per un videoclip erano sempre ambiziose, e per realizzarle sarebbe servito un budget molto più alto di quello che avevamo a disposizione. Abbiamo standard piuttosto alti quando si parla di estetica visiva: amiamo i videoclip di artisti come Battles, Jacques o Igorrr, e chi li conosce sa bene quanto siano complessi, visionari e lontani da soluzioni convenzionali. Per questo disco, in particolare, un video troppo didascalico forse non funzionerebbe. Ci immaginiamo piuttosto qualcosa di astratto, aperto a libere interpretazioni, che non spieghi ma evochi, che lasci spazio alla percezione individuale, esattamente come fa la musica. Chissà, magari più avanti riusciremo a trovare la giusta occasione e le condizioni per realizzarlo. Non è un’idea che abbiamo abbandonato.
Articolo del
25/06/2025 -
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