"It's lonely out in space on such a timeless flight, and I think it's gonna be a long, long time till touch down brings me round again to find". "For here am I sitting in a tin can far above the world, Planet Earth is blue and there’s nothing I can do".
Da Elton John a David Bowie, sono tanti i giganti della musica che hanno cantato le galassie infinite e i mondi lontanissimi. Ma poi, così come ci sono i giganti, ci sono anche "i nani sulle spalle dei giganti": sono i moderni che, per vedere oltre, hanno bisogno di fare affidamento su chi, prima di loro, ha posto le fondamenta del grande impero musicale; in questo caso, i nani sulle spalle dei giganti sono i Cage the elephant, gruppo indie rock statunitense che ha raccontato nell'album "Melophobia" una storia ambientata "in a far and distant galaxy" ("in una galassia lontana e distante").
L'intero brano si sviluppa su un puntuale cambio di prospettiva tra strofe e ritornelli, che termina con una sconvolgente rivelazione. Il racconto ha inizio, e il protagonista è lo stesso narratore-cantante, che dal suo telescopio vede un alieno su un altro pianeta. Ciò che egli nota fin da subito è una certa somiglianza tra loro nel modo di camminare, di parlare e di comportarsi, ed esclama stupito "he walks and talks and looks like me!". Il narratore osserva l'alieno che sembra compiere delle azioni in maniera quasi sistematica e compulsiva, senza un apparente motivo: è seduto nella sua casa, ma poi si alza, si sposta continuamente da una stanza all'altra, e cerca in ogni modo di riempire la sua vita e il suo tempo con cose che potrebbero apparire insignificanti e inutili, ma che in realtà sono indispensabili per tenere la sua mente occupata.
È terrorizzato dal mondo esterno, dalla novità, dal cambiamento, per questo chiude tutte le porte della sua casa e non esce mai. Non è ossimorico affermare che questo alieno sia estremamente umano, alla luce di tutte le contraddizioni e della complessità del suo essere: infatti, pur essendo sempre timoroso e insicuro, viene anche definito "spaventato da quello che la verità potrebbe portare" ("afraid of what the truth might bring"), e ciò dimostra da una parte la consapevolezza dell'esistenza di un mondo tutto da esplorare al di fuori delle mura della sua casa, e dall'altra anche un flebile desiderio di conoscerlo, che viene però immancabilmente neutralizzato dalla diffidenza nei confronti di tutto ciò che non conosce.
Perciò, se per Schopenhauer la vita umana è "un pendolo che oscilla tra dolore e noia, passando attraverso la fugace illusione del piacere", la vita di questa creatura sarà piuttosto "un pendolo che oscilla tra paura e insicurezza, passando attraverso il fugace desiderio di temerarietà". Quest'ultimo si traduce nel tentativo, sempre molto diffidente, di trovare qualcosa che lo terrorizzi per davvero ("desperately searching for signs to terrify, to find a thing"), di osare, ma sempre con molta cautela, chiedendosi come andrà a finire ("and wonders how it all turns out"). Si prepara al peggio, ma forse sperando segretamente di uscire dalla sua bolla di sicurezza.
Per questo, ogni volta che timidamente ci prova, "si chiede perché non sente nessun suono" ("and wonders why he hears no sound"), quasi deluso dalla sua incapacità di conoscere anche un minimo cambiamento. A questo punto è il narratore stesso che, provando forse compassione nei confronti di una creatura nella quale sente di potersi identificare sempre di più, si rivolge direttamente a questa con una serie di massime esistenziali: "I don't think you understand, there's nowhere left to turn, walls keep breaking; time is like a leaf in the wind, either it's time well spent or time I've wasted: don't waste it."
Il tempo è come una foglia al vento: vola via velocemente, sia che si tratti di tempo ben impiegato, sia che sia tempo sprecato, proprio per questo la vita è un attimo fugace, "è una stella cadente che illumina il cielo e poi sparisce"; si tratta perciò di una sorta di carpe diem, di un invito a godere della "brevis lux" che è la vita, in vista della "perpetua nox". Una vita sottomessa alla paura e al terrore non è degna di essere vissuta: è arrivato il momento di lasciarsi alle spalle le proprie insicurezze e incominciare a vivere per davvero, senza perdere altro tempo.
Questo è il consiglio che il narratore offre non più solo all'extraterrestre, ma ormai anche a sé stesso: ora è maggiormente consapevole dei suoi limiti, delle sue paure e delle sue fragilità, e cerca di affrontarle; come? "Clearing my mind, losing my friends, follow my fears, do it again". Avviene qui un importante cambio di prospettiva del narratore che inizia a parlare in prima persona, ripetendo insistentemente a sé stesso una serie di imperativi e rivelando così di essere lui stesso l'alieno che veniva osservato da un telescopio durante una sorta di fenomeno onirico, quell'alieno che sembrava così curiosamente simile a lui, isolato da tutto e da tutti su un altro pianeta, rinchiuso in un mondo che lui stesso aveva riempito di inutili finzioni, accumulate fino a non riuscire più a distinguere il mondo reale da quello fittizio.
A questa consapevolezza segue un'evoluzione, che può avvenire soltanto mettendo da parte i timori e le ansie, assumendo un atteggiamento diametralmente opposto, che consiste invece nel "seguire le proprie paure", gettandovisi dentro a capofitto, vivendole, e quindi, vincendole. La mente va sgomberata da tutto ciò che fino ad allora l'aveva oscurata per tenerla a bada; è un processo di crescita doloroso, e può capitare di perdere degli amici, allontanati proprio dal cambiamento. La tentazione di rinunciare e di arrendersi definitivamente è molto forte, infatti ad un certo punto il protagonista, scoraggiato, rivolgendosi forse ad un ipotetico ascoltatore, ripete disperato la domanda "Man, how 'bout you? Man, how 'bout you? To be free, to be sold, to be killed, to be saved": si chiede come facciano tutti gli altri ad essere liberi o venduti oppure uccisi o ancora salvati, insomma chiede come facciano ad essere così vivi.
Adesso, paragonandosi a tutti i suoi simili, il protagonista-narratore si sente davvero "alieno" rispetto a questi: riconosce la propria condizione di isolamento dagli altri che lui stesso ha creato, per questo si ripete più volte quasi come un duro biasimo "l'm alone, I'm alone". L'ultima frase del brano, pronunciata dal protagonista, è la più significativa: in realtà non è altro che la ripetizione del messaggio del pezzo (già presente nei ritornelli precedenti), ma qui viene sussurrato e non più intonato, è un invito, probabilmente rivolto all'ascoltatore, che fluttua nella totale mancanza di musica, e l'attenzione si focalizza esclusivamente sul suo significato: "don't waste it". fine.
Il brano si posiziona nella corrente indie rock anglofona dei primi anni del secondo millennio. La melodia è facilmente assimilabile e cantabile, muovendosi complessivamente in una sfera di tonalità maggiore. Gli strumenti dell'introduzione iniziale sono perfetti per immergere sin dall'inizio l'ascoltatore in una dimensione cosmica e spaziale: un suono synth riproduce una sorta di onda elettromagnetica, con la marimba a cui è affidata una melodia inizialmente molto semplice e poi via via sempre più complessa, mentre il tempo è delicatamente accennato dal charleston; su questa base preliminare si vanno gradualmente ad aggiungere e ad alternarsi i vari strumenti: tra questi, predominano i diversi suoni synth dai vari timbri e sfumature, in linea con lo stile alt rock dell'epoca.
Altri particolari sono delineati dal basso che diventa più insistente e marcato nei punti di passaggio dalla strofa al ritornello, così come anche dalla chitarra elettrica che, con un reverb abbastanza accentuato, esegue dei brevissimi fraseggi dai toni esotici. La voce si mantiene placida su un registro medio nelle due strofe, mentre asseconda la maggiore intensità dei ritornelli in cui assume un carattere più deciso e sostenuto, per poi concludere questo sentito crescendo vocale ed emotivo nel bridge finale; infatti, dopo una breve sezione strumentale in cui la chitarra elettrica esegue una melodia principale, un forte crescendo della batteria e della chitarra con un altissimo reverb immette nel bridge, una sezione in cui il ritmo è molto più scandito e l'energicità del pezzo raggiunge il suo culmine.
Si arriva subito al ritornello conclusivo che, sul finire della melodia, ripete ancora una volta il memorandum: "don't waste it".
Articolo del
26/02/2021 -
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