Qualche giorno fa ricorrevano i venticinque anni dalla pubblicazione de “Il Vile”, il secondo lavoro dei Marlene Kuntz, un lavoro mostruoso, eccezione che conferma quella famosa regola secondo cui il secondo album sia il più difficile, tirando in ballo Caparezza. E fra poco meno di un mese i Maneskin vinceranno l’Eurovision Song Contest.
Lo so, ho messo assieme due assunti totalmente distanti, ma ormai dovreste sapere che fra poco svelerò le mie carte.
Qualche giorno fa, durante il mio fancazzismo youtubiano, mi sono imbattuto in una serie di reazioni di futuri spettatori dell’Eurovision a “Zitti e buoni”, e lì ho capito che la vittoria all’Expo della musica di merda non è poi tanto lontana, essendo i Maneskin il prodotto perfetto per l’Eurovision, “il peggior conservatorismo che però si tinge di simpatia, di colore, di paillettes”, giusto per buttarla su Boris.
Reazioni di completo giubilo, con il costante e crescente stupore del fatto che anche in Italia si facesse rock e con tanto di headbanging a scandire il ritmo.
In realtà fino a qua ci saremmo anche: siamo noti per essere il paese del bel canto, magari seguito da un piattone fumante di spaghetti al pomodoro sul golfo di Sorrento, storicamente è così, con buona pace di tutti i- goffi- tentativi di cancellamento stereotipico, e l’unica cosa che, da uno straniero, ci si potrebbe sentir dire è “Statece!”
Ora, il punto diventa un altro: quello stupore lì, quell’urlare al miracolo potrei accettarlo da uno straniero, perché chiaramente, essendo noi conosciuti per altro (per quanto sommaria possa essere l’etichetta, ribadisco che quella abbiamo), l’incontro con sonorità inaspettate può spiazzare, è come se sentissi fare i pezzi di Frisina agli Husker Du, per dire.
Posso giustificare, volendo essere comprensivo, l’ascoltatore medio, quello, per intenderci, che va avanti convinto che la Pausini faccia grande musica o che Ultimo sia un poeta.
Ma non capisco minimamente il godimento che un gruppo come i Maneskin possa dare a chi la musica la mangia ogni giorno. Intendiamoci, non sto dicendo che non siano rock (anche se sono convinto che non bastino lick e riff sparati a ripetizione per poter definire un pezzo come rock), ma sicuramente non sono la novità. O, quantomeno, possono rappresentare la novità (e vedi che novità, andare in giro vestiti di paillettes!) solo in uno spazio- tempo come quello attuale, drammaticamente votato all’apparire invece che all’essere. E, dal momento che molto spesso sono più boomer degli effettivi boomer anagrafici, l’obiezione che ho posto ad un sacco di amici che vedevano nei Maneskin una rivoluzione rock è che noi, checchè se ne dica in giro per il mondo, il rock lo abbiamo sempre avuto.
Non per tediarvi con ulteriori lungaggini, ma, giusto per tornare in tema, ieri erano, come detto, i venticinque anni di “Il Vile”: per la band di Cuneo quello lì era il secondo album. Ed era stato preceduto da un altro capolavoro come “Catartica”, non esattamente bruscolini. Ecco, i Maneskin sono anche loro al secondo album. Con la piccola differenza che- tanto il primo quanto il secondo- fanno cagare. Intendiamoci, non ce l’ho con loro, che hanno la mia stessa età e li capisco anche. Ce l’ho con chi li legittima spacciandoli per qualcosa che non sono, ossia l’unico rock che l’Italia abbia mai proposto.
Non voglio andare a parare sui soliti nomi, ma abbiamo, permettetemi il campanilismo, gli Uzeda, da Catania con furore, che hanno intere produzioni ed interi tour con Steve Albini e gli Shellac alle spalle. O i Quartered Shadows, che aprivano i concerti di Nirvana e Primus a Berlino.
Credo che basterebbero già questi due nomi, se non altro per evitarmi di fare gli elenchi come il mostro della laguna padana.
Se il rock di plastica dei Maneskin vi soddisfa, mi dispiace per voi, io posso solo tentare di farvi cambiare idea, facendolo, ovviamente, con la stessa pacatezza di Paul Simonon sul palco del Palladium di New York il 20 settembre del ’79.
Se pensate sia l’unico fatto bene in Italia, beh… c’è un grosso problema.
Ma siccome di solito porto le prove di quello che dico, oggi parlo di un paio di album che confermano la qualità del rock nostrano. E non solo questo, ma confermano, viste le loro carriere, che il grande alt rock lo abbiamo sempre fatto e, soprattutto, cosa non scontata, che il seme germoglia molto bene, a giudicare da quello che nasce. Questa sarà una recensione doppia, ho messo assieme l’ultimo lavoro di una delle band storiche del nostro rock d’autore, con l’opera prima di un gruppo che definire atomico potrebbe sembrare riduttivo.
Rispettivamente, C.F.F. & Il Nomade Venerabile e Viadellironia.
Io non lo so se i due gruppi si conoscono o se qualcuno dei due abbia mai sentito l’altro, ma se così non dovesse essere, sarò molto lieto di fare da “padrino” (mi tocca, visti provenienza geografica e cognome, ndr) di questo incontro. Anche perché siamo di fronte a due facce della stessa medaglia: si parla, in entrambi i casi, di canzone d’autore, chè “cantautorato” ci sta un po’ sul cazzo, in salsa rock, con tutto quello che “rock” significhi e che da “rock” consegua.
Partiamo con i C.F.F. (dove “C.F.F. sta per “Concettuale Fisico Fastidio”, considerate che siamo di fronte ad una band che dal vivo tira fuori delle vere e proprie performance di arti figurative, non paillettati ammiccamenti baldraccheschi da primo piano tv), band pugliese (rispettivamente, Vanni La Guardia, basso e voce, Anna Maria Stasi, voce e scenografie, Anna Surico, chitarre e synth e Guido Lioi, batteria e percussioni) con venti e passa anni di carriera alle spalle (iconico quel “Lucidinervi”, anno 2009, fra le perle del circuito indipendente italiano), che ci regalano “E sia”, sesta prova da studio, che arriva a distanza di sei anni dal precedente “Canti notturni”. Disco ispirato, per titolo e testi, alla silloge omonima di Grazia Procino, che si presenta, oltre che come un vero e proprio concept album, anche come un disco “diviso”, quasi d’altri tempi: otto pezzi totali, suddivisi idealmente in due facciate, la prima con colori più acustici, la seconda a venature più elettriche, ottimo resoconto del vasto spettro di sonorità che da sempre contraddistingue i nostri amici.
Disco che si apre proprio con la title track, pezzo su cui giocano ad incastrarsi una linea di basso profonda ed un cupo arpeggio di chitarra, col tappeto di elettronica che riempie e rende il tutto quasi paludoso. L’ingresso della sezione ritmica aggiunge un colore meno dilatato alla dinamica, in un pezzo la cui atmosfera è perfetta rappresentazione di quel “Ci si aggrappa a tutto per non sprofondare, anche alla notte” che compone il testo.
Secondo pezzo, aperto anche in questo caso da un incrocio perfetto fra chitarre ed una linea di basso vorticosa, è “Dammi a voce distesa”. Qui, oltre agli elementi già citati, svettano un ebow che trascina verso un’atmosfera più languida, cui gli squarci di chitarra elettrica fanno da perfetto contraltare. “Ora che è notte e tutto odora di sporco, c’è un bisogno di voci che, a gola spiegata, cantino la vita, quella intera, non frazionata in frammenti di inutili niente.”
Segue “La veglia”, uno dei due singoli estratti dall’album, col featuring di uno di quegli artisti che, in un mondo giusto, verrebbero portati su una lettiga d’oro per le strade delle città, Andrea Chimenti. Un pezzo straniante, nel quale le atmosfere elettriche cominciano a prendere il sopravvento, con un notevole muro di suono denso e carnoso a fare da tappeto all’incontro, splendido, fra le due voci, quella sabbiosa e profonda di Chimenti e quella cristallina e limpida di Anna Maria Stasi, nel continuo e magnifico rincorrersi ed incontrarsi del testo, “Tienimi il cuore tra le mani. Mi guardi fino a fissarmi. I tuoi occhi mi parlano nella grammatica silenziosa che noi sappiamo.”
“Esergo” è, prima di tutto, la potenza fatta parola: quattro versi, “Non mi ha mai sfiorata il desiderio di essere come tutti. Io, papavero, ai bordi di un asfalto al catrame”, detonanti e rimbombanti, montati su un delicato arpeggio di chitarra, bagnato da un lago di synth tenui.
“Il cuore sotto le scarpe sporche” segna il già citato passaggio a sonorità più ruvide. Ed infatti si scatena, fin da subito, una tempesta di elettrica pioggia distorta, dilaniata da strappi di chitarra elettrica e resa incessante da una linea di basso tonante, col contraltare del finale a cappella, che, seppur non meno dolente, sembra fare da quiete dopo la tempesta. “Seguì un inverno inacidito dalla tua indifferente distanza, gelo alle mani e al cuore. Volli provare la disperazione, invocai balli di distratta allegria, fui terra asciutta.”
A questa segue “Non ho più”, sorretta ritmicamente da una chitarra acustica, colorata dai fraseggi della elettrica e da toni più vicini all’elettronica, con un interessante tappeto di synth su cui ben si sposa una ipnotica linea di basso, mentre i contrappunti degli archi fanno da aperture melodiche al pezzo, e suonano, in considerazione del testo, come coraggiosi lampi di autocoscienza. “Ho ancora i piedi e gli occhi. Mi seguono, mi rincorrono, mi scrutano nei passi vacillanti. Non smarriscono la bussola nel vuoto assolato d’estate e nella nebbia di un eterno autunno.”
Penultima traccia è “Amore e mito” (“Mi volto come Orfeo, in attesa di squarci nitidi dal passato. Come Euridice mi inoltro nel futuro e mi smarrisco in isole senza pace.”), brano in cui i colori elettronici si mescolano perfettamente a quelli elettrici, in un tumultuoso incontro, con un basso martellante che infrange il solidissimo muro sonoro creato dalle schitarrate sporche.
A chiudere il disco ci pensa “Epilogo”, aperto da un palpitante pattern di percussioni ed elettronica, su cui l’ingresso della chitarra elettrica arriva come lama affilatissima, in un pezzo dall’afflato asfissiante e cupo, sottolineato da un cantato che è in realtà un recitato cadenzato ed incessante. “Ameremo senza stancarci in stanze grandi a contenere cieli neri come la pece, per confondere il mio dal tuo ed essere nostro. Torneremo a godere di vita.”
L’altro album in questione è, come detto, “Le radici sul soffitto”, esordio ufficiale delle Viadellironia, quartetto bresciano formato da Maria Mirani, chitarra e voce (oltre che autrice dei testi), Giada Lembo, basso, Greta Frera, chitarra, e Marialaura Savoldi, batteria, qualora voleste saperne di più, vi consiglio una splendida intervista di Stefano Carsen a Maria per Weloveradiorock. Parlo di “esordio ufficiale” perché in realtà le nostre avevano già pubblicato, un paio di anni fa, un ep di quattro pezzi, “Blu moderno” (sentitevi “Diffida dello sguardo”, che è un piccolo bijoux), uscito che ancora il nome del gruppo era scritto staccato. Bene, questo ep arriva fra le mani di Cesareo, chitarrista dei mitici Elii, che ne rimane folgorato (sfido io!) e decide di produrre il loro primo, vero album. Album fatto di tratti ruvidi e spigolosi, che ben si sposano con una scrittura incredibile, ironica e spietata, come è giusto che sia,
E qua, piccola precisazione/ digressione, tanto ormai ci siete abituati: ho scoperto, incuriosito dal comunicato stampa, che con le ragazze siamo praticamente coetanei, ci togliamo quattro anni. Ecco, è un dato che fa notare, qualora ce ne fosse bisogno, quanto sia imbecille il classico “Eh, ma i giovani d’oggi… ai miei tempi, sì che c’era il roccherroll”. Che, detto da chi si gasa coi Maneskin, fra l’altro, assume toni alla Cocteau, da quanto è surreale (e cito lui non a caso, chè di specchi vari è pieno anche questo disco).
Adesso so pure che ci sarà quello che verrà a questionarmi sul fatto che, qualche riga più sopra, l’atteggiamento che io ho avuto nei confronti dei Maneskin è esattamente quello da “Eh, ma i giovani d’oggi…”.
Ecco, mi sembra tanto evidente che questo novello sollevatore di opinioni avrà letto l’articolo come se fosse a Piazzale Loreto che non voglio nemmeno perdere tempo a spiegare un discorso che, fra l’altro, mi sembra di aver espresso in modo abbastanza lineare.
Per cui, bando alle ciance e partiamo con il disco.
Disco aperto da “Bernhardt” e dalla sua schitarrata distorta programmatica, cui i fraseggi dell’altra elettrica fanno da contrappunto, legati alla perfezione dalla linea di basso e da un pattern di batteria a tratti militaresco. Interessante la componente letteraria, “Sai, dicevo: “Presto o tardi cambieran le carte, ed io avrò una parte. Sarò Cesare o il nemico d’eccellenza, sarò la vittima immolata per eccesso di conoscenza. Il bastardo che, morendo, si apparecchia una coscienza, la Bernhardt, nelle veci della Tosca” Invece son la mosca, che con riverenza veglia sulla merda.”
Segue la title track, contraddistinta da una linea di basso, perfettamente incastrata col pattern di batteria, molto interessante, che insieme ai fraseggi della chitarra solista dà colore, mentre la ritmica funkeggiante della chitarra ritmica nel ritornello fa da definitivo elemento di dinamismo nell’architettura del pezzo.” Bianco. Niente è così bianco come una stanza d’ospedale. E come mi confondo quando provo a stare al mondo, come poi ci resto male quando affondo. C’è un pensiero che mi stanca, e non riesco più a guardare l’idiota che corre in uno schermo. Vorrei solo fare un fermo immagine e sputare.” sono le parole che aprono un pezzo contraddistinto, a livello tematico, dall’interessante immagine delle radici sul soffitto, simbolo di capovolgimento, di nuovi inizi, ma anche, in qualche modo, di morte.
Terza traccia dell’album, nonché primo singolo estratto, è “Ho la febbre”, pezzo che, al di là del titolo momentaneamente più sconveniente del solito, vede la partecipazione di uno dei nostri cantautori più illuminati, originali e riconoscibili, vale a dire Edda. Un cupo arpeggio di chitarra apre il pezzo. All’altra elettrica il compito di allargare l’atmosfera, che esplode definitivamente nel ritornello, dilaniata dall’ingresso di Edda, in un incontro vocale perfettamente riuscito. Geniale, poi, una linea di basso letteralmente bifronte: tanto cupa nel ritornello, con le sue scale discendenti, quanto piena di groove e vorticosa nel ritornello. Un pezzo del genere, manco a dirlo, ha un testo altrettanto degno: “Ho la febbre e non mi staineanche a guardare in faccia, amore il senno mi minaccia di andar via. Andiamo via da casa, che hanno facce di topi e si vantano di essere servi. I vermi sono meno conformi al regime, son meno fatali agli inermi.”
“La mia stanza” ha toni musicalmente più limpidi, con la strofa scandita da un bell’arpeggio, contrappuntato da svisature e fraseggi della chitarra solista e da un basso martellante, ed un ritornello dal tiro più distortamente punk. A fare da corollario, come sempre, un testo affilatissimo: “Vorrei vedere i tuoi vent’anni come stessi dentro una lanterna. Vorrei vedere la tua maniera di imparare la vita moderna. E mai vedere l’intelligenza dei tuoi occhi che si ferma.”
Giro di boa del disco è “Canzone introduttiva”, brano dalle tinte noir, trascinato da una linea di basso collosa ed allungato dai tagli dell’ebow. Splendida l’esplosione incazzata del ritornello, coi suoi fraseggi impazziti, che trascinano verso un solo corrosivo ed un muro di chitarre elettriche. Il testo è l’ennesima pallottola letteraria: “Ricorda, giudice, l’esecuzione, con l’accusa di inventare divinità che amano con troppa convinzione e che, certo, chiedon troppe libertà.”
“Come vene del marmo” spariglia le carte in tavola, mettendo insieme un cipiglio smaccatamente punk con un groove funkeggiante, in cui chitarre e basso si intrecciano alla perfezione, rincorrendosi e ritrovandosi di volta in volta. “Se muori non mi dire che l’impero della luce non esiste e che il mio emisfero triste del linguaggio è un imbroglio che si disferà nel fiume e alla foce una mia amica ne raccoglierà la salma, senza la mia voce in allegato che la calma”
Altra bella scarica elettricamente satura è “Stampe giapponesi” (“Spiegatelo alla gente che non serve mangiar tanto da essere peso per sé stessa”), un imponente reticolato di fraseggi di chitarra che ben si poggiano sulla ritmica in powerchord e su una linea di basso caleidoscopica.
“Architetto” monta su un afflato da filastrocca elettrica, scandito da un basso circolare e da un andirivieni di fraseggi di chitarra, che bacia lievemente anche il reggae, un testo che parla di quanto una casa possa rivelarsi opprimente (“Amore, amore tessimi un sistema che non sia questa prigione, ho bussato ad ogni porta giù in paese, ad ogni grande narrazione.”) e che vede la partecipazione del mitico geometra Mangoni.
Tiro blueseggiante per “Simile a un morente”, che vede l’ennesimo connubio ben riuscito fra basso e chitarra solista: tanto granitico l’uno, quanto esuberante l’altra, sostenuta, a sua volta, da una ritmica rotonda ed avvolgente. Ritorna, nel testo, il tema della morte, vero leit- motiv del disco, “Ma uno schermo ti ricorda bruscamente che sei simile a un morente, preoccupato soprattutto di morire sorridente. La tua bocca mi pulisca la coscienza.”
Chiusura degnissima del disco è “Figli della storia”, pezzo che presenta un delizioso aggancio fra le due chitarre, che giocano complici sugli incastri di battere e levare, riempito da una linea di basso densa di groove. Molto bello l’immaginario disilluso e decadente del testo, “Com’è difficile far parte della storia. E tutti a fare figli e tutti a innamorarsi contro voglia, istupiditi dal fascino celeste dei bambini. Un cadavere germoglia nei giardini Montanelli e ci mostra i figli della storia così belli che vorrei non esser nata. La sonata in la minore mi risuona dentro il cuore e tu ne sei l’esecutore.”
Vado a chiudere dicendo che si tratta di due dischi politici, per tutta una serie di motivi, primo dei quali è l’uso della parola, messa al centro in entrambi i casi: i C.F.F. riprendendo le poesie di Grazia Procino, giocano la carta della rarefazione letteraria, dell’afflato immaginifico della parola, mentre le Viadellironia, pur mantenendo una certa capacità pittorica nella parola, si muovono su uno stile più diretto, fatto soprattutto di una interessante (e notevole) alternanza di registri, oltre che di una scelta delle parole magistrale. Poi sono album politici perché sono “puliti”, senza sotterfugi, vivi: giocano entrambi a carte scoperte, riuscendo costantemente a sorprendere l’ascoltatore riversandogli nelle cuffie tutte le loro tavolozze stilistiche. Ed, ultima cosa, che poco c’entra con la politica: stiamo parlando di due gruppi che hanno carattere a pacchi, di due prove discografiche magnetiche, di due approcci alla materia musicale talmente sentiti da risultare necessari.
Il rock (non) è morto, evviva il rock!
Articolo del
09/05/2021 -
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