Arrivato nei negozi il 29 gennaio 2021, The Future Bites (uscito per l’etichetta Caroline International) è il sesto album solista di Steven Wilson, musicista e produttore discografico che nella sua lunga carriera ha solcato oceani di suoni e generi tra i più disparati.
Inizialmente previsto a giugno del 2020, il protrarsi dell’emergenza sanitaria ha visto rimandata all'inizio di quest'anno la sua uscita, con Wilson che nel frattempo ha avuto modo di espandere e promuovere maggiormente il concept dell’album attraverso la realizzazione dei video dei singoli “Personal Shopper”, “King Ghost”, “Eminent Sleaze”, “Self”, “Man Of The People”, e l’aggiunta di canzoni inserite poi nella Deluxe Edition (ad esempio il pezzo in chiusura è stato cambiato, da Anyone but Me a Count Of Unease).
Quello di The Future Bites è un concept generale (ovvero l’essere un contenitore che racconta al suo interno storie diverse unite da un sottile ed invisibile filo narrativo) che ha il suo focus sul ruolo oramai predominante nella nostra società dei social e del consumismo, aspetti che hanno visto, proprio grazie alla pandemia da Covid 19, aumentare enormemente il loro abuso nella vita quotidiana delle persone.
Nel corso dei mesi antecedenti all’uscita il dibattito virtuale sulla qualità e coerenza artistica dei singoli rilasciati ha tenuto infiammati i seguaci di questo o quel genere musicale con un’accesa discussione, di per sé nata ben prima, ma divenuta ancor più feroce con l’uscita nel 2017 di “To The Bone”. L’album in questione aveva già messo in chiaro quella che era il sentiero musicale che Wilson aveva deciso di intraprendere, ovvero un suono più elettronico e pop ed un abbandono in parte delle chitarre, strumento che nonostante ami ancora molto (e che viene usato con parsimonia anche in The Future Bites), sentiva fosse giunto ad un capolinea espressivo all’interno del proprio universo artistico.
Uno dei commenti più tristi che mi è capitato di leggere sulla pagina facebook ufficiale di Steven è stato quello dove un utente affermava che “la tua musica deve essere quella che i fan vogliono ascoltare”. Tagliando qui il discorso sull’arte ad uso e consumo del committente (anche perché tante delle cosiddette critiche danno solamente modo di constatare quanto poco della discografia di Wilson si è esplorata), visto che sarebbe davvero lungo ed articolato analizzare nel giusto modo tutti gli aspetti della faccenda, passiamo a quello che effettivamente è l’album arrivato nei negozi e sui maggiori servizi di streaming online.
Registrato a Londra e co-prodotto da David Kosten, The Future Bites riparte dai lasciti mainstream che il precedente album aveva insinuato nel percorso solista del musicista inglese, rendendo però il tutto più coeso e compatto (laddove invece To The Bone proponeva una diversa varietà di stili ed una durata complessiva maggiore, 59 minuti contro i 42 di The Future Bites) senza però sacrificare eleganza e ricchezza sonora, anche quando la lunghezza del brano indurrebbe a pensare il contrario.
“Unself”, brano d’apertura, ne è l’esempio perfetto. Poco più di un minuto di durata per quello che appare come un piccolo mantra di benvenuto, con la voce che si protrae in un crescendo pacato e sale distorcendo il suo tono, mentre in sottofondo degli arpeggi di chitarra classica sostengono il dibattito che la coscienza rivolge verso sé stessa e verso il mondo:
“Self-control Self-control Self-control All hail to love And love is hell The self can only love itself All hail to love And love is hell”
“Self” è il primo pezzo in cui compaiono i cori femminili che più volte torneranno nel corso del disco, una sorta di leitmotiv di fondo che va a sommarsi ad un ritmo coinvolgente e che rende il pezzo il complemento perfetto all’iniziale unself. La cadenza ed il riverbero dei beat elettronici dona effervescenza al brano, con alcuni stop and go in cui la voce di Steven appare leggermente riverberata ed accompagnata da quella di una donna.
Nei 2:56 di durata pulsa il cuore musicale e narrativo dell’intero disco. Il testo appare come la continuazione e il reiterarsi della lotta del sé egocentrico contro il mondo della comunicazione digitale e del marketing aggressivo, costantemente sul punto di fagocitare ogni cosa all’interno di quella che è sempre più una moltitudine fredda e ansiosa. Sul finire della canzone c’è anche un piccolo apporto delle due figlie acquisite di Wilson e di alcuni loro amici, i quali, interrompendo per un attimo il gioco delle parti, esclamano all’unisono “i am the universe”.
“King Ghost” è stato il terzo dei singoli di lancio, accompagnato da un bellissimo video che mi ha riportato alla mente il periodo di “The Raven That Refuse To Sing”, ed è forse il pezzo più strettamente “classico” e tendente al passato recente della discografia di Wilson.
L’inizio dark può facilmente ingannare l’ascoltatore facendo pensare ad un mood oscuro, ma andando avanti nell’ascolto ecco la magia palesarsi, un’esplosione di bellezza sublime ed il chorus che si espande verso la volta celeste, un dolce ed emozionante lamento mi verrebbe da dire, che guarda nel profondo ai fantasmi che abbiamo dentro.
“And when you're moving through a photograph You're faster than most You're bloody King Ghost But you're kind of wasted And I wish I'd waited For you To come to”
“12 Things I Forgot” è una ballad che non avrebbe sfigurato in una delle uscite discografiche dei Blackfield, progetto nato nel 2004 dalla collaborazione tra Wilson ed il polistrumentista israeliano Aviv Geffen. Una piccola perla che racchiude tutto il senso melodico del grande universo Wilsoniano, uno sguardo ad atmosfere, luoghi e persone di giorni lontani, gettando al contempo uno sguardo al futuro: “I forgot What it was that I was There was a time when I had some ambition Now I just seem to have inhibitions Forget what I said 'Bout acting on all the plans that I made Now I just sit in the corner complaining Making out things were best in the 80s”
Sul finire c’è uno splendido intarsio emotivo, con gli arpeggi delle chitarre che crescono fino a sfumare d’improvviso nel consueto piccolo spazio vuoto che esiste tra due canzoni.
In “Eminent Sleaze”, secondo singolo estratto, il focus torna sul concept distopico e oppressivo che fa capo alla “The Future Bites/TFB “, corporazione onnipresente dedita alla vendita di differenti beni di consumo (lo stesso Wilson ha messo in piedi un vero e proprio sito “ufficiale” che ha nel suo catalogo, insieme alle edizioni fisiche dell’album in cd, vinile e cassetta, anche oggetti come rotoli di carta igienica, lattine o perforatrici, tutti marchiati TFB).
C’è un funky futuristico e graffiante che smuove il corpus del pezzo, mentre nelle immagini del video si può osservare un Wilson inconsueto in veste dirigenziale, con valigetta griffata TFB naturalmente, ergersi a controllore e corruttore delle masse consumistiche.
“I turn on the charm and You're down there on the tarmac I say something funny You give me all your money A flash of my teeth and You hand your car keys over A flick of my wrist and And I seduce your sister”
“Man of the people” è un'altra alcova in cui va a rannicchiarsi in modo dolce l’animo più sensibile di Steven, con il suo inizio lento e raffinato, rapisce immediatamente e sembra quasi voler unire il lato più melodico dei Porcupine Tree e dei No-Man alle venature elettro pop di brani solisti come Perfect Life da Hand Cannot Erase.
Nella fiction che Steven appronta si torna nuovamente a tracciare un solco indagatore in quella che è la vita di qualcuno/a vicino al cosiddetto “uomo della gente”, un politico o un sacerdote coinvolto in qualche scandalo, il quale si trova anch’egli d’improvviso sotto l’occhio indagatore delle telecamere.
“Trust You know how to take it Love You know how to fake it (Oh) And I Will be there beside you The camera eye The drug is just to be near you Oh (oh) ”
Verso i due minuti c’è un rapido incresparsi nelle onde di questo narrare, una leggera pennata acustica e l’aria si intensifica generando elettricità dietro le parole, che divengono distorte e malinconiche grazie all’uso del vocoder. Con “Personal Shopper”, apripista lo scorso anno del dibattito su The Future Bites, essendo stato il primo singolo rilasciato, si torna, ancora una volta, a constatare la salda unione tra il lontano passato discografico di Steven e la recente “corsa” in solitaria.
Con i suoi 9:49 minuti è il brano più lungo dell’album e quello che ospita una “guest star” di tutto rispetto, Sir Elton John. Benchè il suo ruolo si risolva alla fine con la lettura di un’immaginaria “shopping list”, la parte in cui ciò avviene è quella dagli echi più ancestrali di tutto il brano, ricalcando passaggi del meraviglioso Voyage 34, gemma sonora dell’epoca sperimentale dei primi Porcupine Tree.
Anche questa canzone, così come gli altri singoli, ha visto la realizzazione di un video. In questo caso viene mostrato lo svolgersi di una “giornata di ordinaria follia”, un folle pellegrinaggio di negozio in negozio da parte di un consumatore alienato che, acquisto dopo acquisto, si vede privato di qualche parte di sé. Wilson qui compare in un breve cameo nella parte di un uomo qualunque che, scendendo dalla scala mobile del centro commerciale dove sia aggira il protagonista, gli dà un cinque con la mano.
Tornando al brano, la suite che ne risulta è la summa musicale e lirica del concept, tra cori, partiture quasi ambient, l’uso del falsetto e di alcune “linee guida” usate come slogan promozionali della corporazione fittizia TFB.
“Have now, have now, pay in another life Kickstart the future, accept this loan Fill in the form, you're pre-qualified You're now the sum of what you own Buy now, buy now, have a better life Close out transactions without remorse Apply for credit, it's your given right Buy it all then buy some more”
“Follower” rappresenta l’anticamera alla fine del viaggio, un pezzo veloce e forse il più rock dell’intera tracklist, con lo sguardo che va a soffermarsi sul ruolo di influencer e social. La ripetizione ossessiva nel chorus di quel “Oh, follow me, follow me” incarna un bisogno che ciascuno di noi in fondo ha, l’essere amati. Un desiderio segreto e certamente condivisibile, divenuto però una distorta chimera di realizzazione personale nella generazione del tutto ed ora.
“Future biting Millions spiting Too much time, boy Too much everything”
L’epilogo dettato da “Count Of Unease” (che come detto all’inizio è stata una scelta successiva di Wilson non soddisfatto del precedente brano in chiusura del disco), è un lento incedere che si muove in punta di piedi al pari di un sacerdote all’interno di un tempio.
“Breath of monsters now Raining down where I begin If I could die right now For anything it would be this Always outside Always out of my mind”
E’ il rilascio graduale di tutta la follia, dell’affrancamento dalla tristezza consumistica e dalla vuota apparenza senza contenuto. Attraverso un bellissimo tappeto di leggere percussioni, su cui si poggia delicatamente la voce di Wilson, il cammino rimane sommesso fino al finale, dove il tono delle parole appare sovrastare d’improvviso tutto il resto e crescere d’intensità, creando quello smarrimento sinestetico che tanto amo dell’arte di Steven.
Il concept trova così il perfetto corollario chiudendosi idealmente con la stessa malinconica speranza che lo aveva visto nascere in “Unself”. Sta all’ascoltatore adesso valutare a mente aperta l’evoluzione di questo artista poliedrico e geniale, accantonando ogni forma di prepotenza su quella che “dovrebbe essere” la forma o il contenuto di un’opera d’ingegno.
“And did I really care? Did I believe the words I spoke? Was I even there? Did I disappear in smoke? ”
Articolo del
01/02/2021 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|