Un album atteso, che ha avuto una genesi particolare, un disco bellissimo, la colonna sonora forse di questi tempi, di “lockdown”, dominati dalla pandemia.
Nick Cave aveva programmato dei concerti dal vivo che si sarebbero dovuti tenere nella West Hall dell’Alexandra Palace, a Londra, poco dopo l’uscita di “Ghosteen”. Il virus ha cambiato tutto: le date sono state prima riprogrammate, poi annullate del tutto. Ecco infine la soluzione definitiva: “Alone”, un concerto per pianoforte e voce nello stesso spazio, ma “da solo”, senza pubblico.
Quel concerto è diventato un film, ma adesso esce anche sotto forma di doppio cd, confezionato in modo essenziale, con una foto in bianco e nero che ritrae l’artista al centro della sala, seduto davanti al suo pianoforte, ma lontano, lontano da tutto e da tutti. Non ci sono neanche i Bad Seeds, i suoi musicisti, gli amici di sempre. Un “live” quindi, ma davvero particolare: doloroso e silente, in cui manca del tutto qualsiasi forma di “feedback”, di comunicazione.
Un album che comprende ventidue nuove versioni di brani scelti da Nick Cave fra passato e presente dell’artista. Una rivisitazione della sua storia personale e insieme della sua dimensione artistica, un grido di dolore, questa volta pacato e sofferto, ma ugualmente drammatico. Ci sono delle straordinarie versioni di “Spinning Song”, di “Waiting For You” e di “Galleon Ship”, tratte da “Ghosteen”, c’è il recupero di un brani poco conosciuti come “Palaces Of Montezuma”, firmato come Grinderman, e come “Man In The Moon”, c’è anche un inedito, intitolato “Euthanasia”.
Ma gran parte del concerto si basa su nuove versioni di “The Boatman’s Call”, meraviglioso album del 1997, dal quale sono tratte composizioni struggenti come “Far From Me”, “Into My Arms”, “Black Hair”, “The One I Have Been Waiting For” , “ Brompton Oratory” e “Idiot Prayer”, la ballata raramente eseguita dal vivo, ma per lui davvero importante, tanto da essere scelta come titolo all’album.
Non potevano mancare una versione a dir poco sublime di “Girl in Amber”, e classici come “The Ship Song”, “Stranger Than Kindness”, “Sad Waters”, “The Mercy Seat” e “Jubilee Street”. Forse ci sarebbe stata bene anche “The Weeping Song”, ma il mio parere al riguardo conta meno di zero. La scaletta del concerto segue direttive che vengono solo dall’autore che ha inteso ascoltare la sua mente, il suo cuore.
Un album che ti paralizza dal dolore, un disco che tocca corde profonde, un concerto che celebra la solitudine, che dialoga con l’assenza che diventa momento di contemplazione, una sorta di condizione ascetica che, mai come in questo momento, sa essere consolatoria.
Articolo del
23/11/2020 -
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