Questo è uno dei tanti articoli che comincia parlando di scrittura e del “mestiere” di critico.
Prima o poi farò una specie di formulario con vari inizi che parlano di scrittura e li metterò nei vari miei articoli come gli incipit di Guerre Stellari: “Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana…” e via discorrendo.
Adesso, scherzi a parte, il discorso a monte è sempre il medesimo: finire a parlare di musica per qualcuno a qualcuno è stata una cosa che mi è arrivata del tutto inaspettata, per di più in un momento in cui ci avevo perso le speranze e mandavo curricula per puro esercizio di stile.
Per cui sono ancora nella fase di realizzazione di questa cosa.
Anche perché sto vivendo un personalissimo paradosso, quasi una legge del contrappasso. Mi spiego meglio: fra scuola e, spesso, gruppi di amici, sono sempre stato quello che ascoltava robe strane, quasi sempre di molti anni fa, quello della musica vecchia per intenderci.
Adesso, proprio per quella legge del contrappasso di cui sopra, mi trovo con una discreta frequenza ad ascoltare non solo musica nuovissima, ma addirittura musica che, al momento del mio ascolto, proprio non esiste ancora.
Che è una circostanza che, come sempre per quanto mi riguarda, ha una doppia lettura. Perché mi fa sorridere il fatto di essere passato dal vestire i panni di quello retrò all’essere diventato quello più all’avanguardia, con “pappappero” agli interlocutori annesso, sono uno stronzo e lo sapete.
Dall’altro lato apre una considerazione molto più ampia sul ruolo del critico musicale in tempi di musica liquida: nei ’70 il ruolo del critico era esattamente quello di scovare, passatemi il tempo, le uscite più interessanti, per parlarne, spesso in anticipo, nei vari numeri dei mensili, che uscivano, spesso, a ridosso di quelle stesse uscite discografiche di cui loro avevano parlato. Si creava, fra critico e lettore, un rapporto fidelistico: il critico di consigliava dei dischi da comprare, tu investivi i tuoi risparmi su quei dischi, praticamente a scatola chiusa, dal momento che non sapevi cosa c’era dentro e non potevi preascoltare su Spotify o YouTube. E se il critico ti consigliava dischi che non ti piacevano, praticamente perdeva un lettore.
Ecco dove noi si era importanti e si aveva ragione d’esistere.
Col passaggio alla musica liquida il brivido dell’acquisto a scatola chiusa, e la contestuale e consequenziale attenzione alle recensioni dei critici si sono persi, e noi scriviamo perché ci piace farlo.
E forse perché è l’unica cosa che sappiamo fare. O almeno, questo è il mio caso.
E qui si entra nel magico mondo del lavoro/ non lavoro: io, che scrivo senza remunerazioni, ma sono legittimato come attore del settore da accrediti, mail o, appunto preascolti, sto lavorando o no?
E soprattutto, parafrasando Conrad, “come faccio a spiegare a mia madre che quando ascolto musica sto lavorando?”
Fatevi questa domanda e datevi una risposta.
Io, da par mio, penso che una “ristrutturazione”, soprattutto qualitativa, quindi dal punto di vista della scrittura, della critica musicale non sarebbe poi male, e che un po’ di “ventilazione” e di aria pulita non guasterebbero.
Vi leggo e vi giudico, sapevatelo.
Nel frattempo, già che mi trovo, comincio a parlare di musica.
E di un album che ho ricevuto, guarda caso in preascolto, un bel po’ di tempo fa.
Però, siccome sono fondamentalmente un perditempo (vi ho mai detto di quanto sia bravo nel procrastinare?) lo sto comunque recensendo due giorni dopo la sua uscita.
Non a caso, l’album si chiama “Ristrutturazioni”, ed è il nuovo lavoro in studio di Agnese Valle, a parer mio- ‘sto giro insindacabile- una delle migliori espressioni del cantautorato attuale nostrano.
“Ristrutturazioni” è il suo terzo album, ed è un concentrato di classe su pentagramma: tessiture armoniche di altissimo livello ed una ricerca sulla parola veramente profonda ed invidiabile.
Ma credo sia il caso di andare più nel dettaglio,
A fare da apertura è “Palmo su palmo”, delicata ballad sostenuta dal pianoforte, con degli arpeggi di chitarra in sottofondo e delle spruzzate di synth e di archi, mentre l’inciso è arricchito da un delicato inserimento di chitarra elettrica e da un crescendo appena accennato, che si mantengono lievi ed eleganti come la linea vocale dello stesso. Delicatissimo il testo, molto belle le immagini del primo verso (ma comunque anche il resto del pezzo non scherza, eh): “Cammino, su pensieri di fumo E giro, giro da solo Col mio cuore al guinzaglio”
“Cortocircuito” si distacca dal cantautorato canonico, complici i giochini di elettronica che sostengono il pezzo, molto Rammstein di “Radio”. Una linea di basso marcatissima è l’altro elemento cardine di un brano che trova la sua perfetta quadratura con gli inserimenti di chitarra elettrica (con la partecipazione straordinaria dell’ebow, e personalmente sono già mille punti sulla scala del gradimento). Notevole il testo, che racconta di un cortocircuito che è in realtà un cortocircuito della società, di un buio che avanza “ma se sgrani gli occhi a guardare In quel nero più fondo del fondo un accendino ti potrà salvare”.
Uno dei capolavori dell’album è “Come la punta del mio dito”, scritta e cantata insieme a Pino Marino, di cui fra l’altro a breve sentirete parlare da queste pagine: è uno di quei pezzi talmente delicati da frantumarti completamente, di un bello talmente puro ed abbagliante da essere, al giorno d’oggi, merce preziosa e rara, da custodire. Un brano scandito dal pianoforte di Pino e da una chitarra acustica ritmica, cui fa da contraltare una delicata chitarra elettrica che arpeggia. Tocco di classe è il solo di clarinetto, suonato dalla stessa Agnese. Il testo è talmente bello che andrebbe inserito tutto, ma mi limiterò a metterne un paio di strofe: “C'è un buco sopra al tetto e quando grandina si sciolgono nel letto tutte le parole con il temporale, tutte le parole. C'è un buco in mezzo al petto e qui ci nevica, a volte lascia entrare, a volte lascia non fa uscire, a volte giudica, come la punta del mio dito.C'è un taglio verticale che non sa ancora distinguere dove finisca il bene dove cominci a fare male. Come le cose che non dico e poi parlano di me più di quanto possa dire
tutto quello che ho capito, come le strade che nessuno sa percorrere, come la luna che nessuno può indicare. Come la punta del mio dito,la punta rotta del mio dito”
“Cactus” è giocata su una ritmica di elettronica molto interessante, e ha una interessantissima linea di chitarra durante il ritornello, montata su un pezzo fresco ed aperto, che va in crescendo per poi richiudersi sul finale. “Portatemi un mazzo di fiori per quando manca l'approvazione” credo diventerà il motto dei Bastian Contrari di razza di tutto il mondo. Poteva finirci decisamente peggio, eh…
“Al banchetto dei potenti” è impreziosito dalla sezioni di archi dell’Orchestra delleDonne del 41° Parallelo e dal fischio del già citato Pino Marino, e si presenta con una strofa in levare, per poi crescere, come sempre, nel ritornello. Se la prima strofa è abbastanza lineare, con tastiera ed elettronica a governare, l’intervento degli archi edi contrappunti di clarinetto finiscono per colorare la seconda, rendendola ulteriormente dinamica, mentre il fischio si pianta in testa e non esce più.
Altro singolo già pubblicato, dopo “Come la punta del mio dito”, che era arrivato finalista come miglior canzone alle Targhe Tenco ’18, è “La terra sbatte”, questa volta in collaborazione con quel progetto meraviglioso che è la Piccola Orchestra di Tor Pignattara. Un pezzo dal grande dinamismo, un incastro perfetto di elettronica e riff di chitarra, montato su una ritmica cavalcante e su un testo da Leopardi del “Dialogo di un islandese con la Natura”, “Se l’uomo spaventa, di spada ferisce. La terra si sveglia e demolisce. Nel braccio di ferro con la Natura la terra che sbatte fa più paura”.
“Di carne e di pietra” comincia parlando di orologi rotti. E difatti la prima strofa sembra uscire fuori da un quadro di Dalì: l’accompagnamento del rhodes è languido ed acquoso. Poi, con la solita grazia, il pezzo decolla e cresce fino a diventare un etereo bolero, per tornare a dissolversi nel finale.
Struggente e nostalgica è “L’ultima lettera dell’astronauta”, brano guidato da un pianoforte e da un quasi impercettibile arpeggio di chitarra elettrica, mentre rapidissimi tocchi di elettronica richiamano le atmosfere spaziali.
Delirante ed ansiogeno (per un claustrofobico ancora di più, a dire il vero), quasi soffocante come la storia che racconta, è l’inizio di “Fame d’aria”, pezzo che si apre ad un rock scatenato nella seconda strofa, subito smorzato da un bel solo di clarinetto, ma col muro di suono delle chitarre elettriche costante in sottofondo.
Quando mi è arrivato il presskit col preascolto ed ho letto i titoli, a parte i due pezzi che già conoscevo, sono andato dritto alla decima traccia, il cui titolo mi diceva qualcosa, e volevo effettivamente vedere se si trattasse di una cover, per poi giubilare un attimo dopo. Perché la decima traccia è “Ventilazione”, title track di uno dei più begli album di Ivano Fossati (ma trovatemelo voi un album di Fossati brutto, ndr), nonché uno dei miei pezzi preferiti di sempre. Che viene riproposto in una versione bellissima, spogliata di uno strato di rock e riproposta in una versione più aperta, meno chitarre distorte più basso marcato ed un pattern di battera più mutevole sul pre ritornello e con una spruzzata di elettronica kraftwerkiana sulla seconda strofa e durante i riff di chitarra, fino alla coda finale. Insomma, un gran bel lavoro.
“Il Tonno” è sostenuta da un tappeto di elettronica, cui si aggiungono delle schitarrate elettriche nel ritornello, in un pezzo molto fresco ed orecchiabile. Interessante l’utilizzo dell’harmonizer all’inizio e sui cori, si fonde perfettamente con le altre sonorità del brano. Molto bello anche il testo, un inno alla cocciutaggine (per non usare quell’altra parola che comincia per “r” e che torreggia sempre più spesso su bicipiti ed avambracci), alla testardaggine intelligente e resistente. “Ma che fatica nuotare controcorrente con quella spinta ti porta a cavallo dell’onda
per poi buttarti giù e per fortuna che resto a galla.”
Chiudere l’album tocca a “Scivola”, anch’esso pezzo delicatissimo ed elegante, sorretto dal synth, che si occupa anche di colorarlo con i vari contrappunti, e da un arpeggio di chitarra. Pezzo che ha un testo contemporaneo, che riesce davvero a “vivere il presente” ed “vivere nel presente”. Ha un passaggio bellissimo, un consiglio che, a pensarci, terrò stretto come antidoto per le giornate no: “E se mi accorgo di parlare proprio a chi non vuol sentire, inventerò nuove parole”.
Grazie.
Tiro le somme: credo si sia capito che ‘sto disco dovreste proprio ascoltarlo, c’è dentro tutto quello che si dovrebbe trovare in un disco: spunti di riflessione, fantasia e tanta bellezza pura.
Serviva, e tanto, per riprendere contatto col saperci stupire ancora, col vincere la disillusione, chè fantasia e musica servono anche a quello.
A ricostruire.
Anzi, ristrutturare.
Articolo del
18/10/2020 -
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