Scrivo da poco più di un anno.
E questo mi sembra, se non di averlo detto, di averlo fatto quantomeno intendere.
Sono arrivato ad una sessantina di articoli, più o meno. Roba che potrei cominciare a fare un pensierino sul patentino da giornalista pubblicista, ma col cazzo.
Su, mettiamo, sessanta articoli, escluse le pagelle di Sanremo (due serate, quindi due articoli), cinquantasette sono articoli positivi, fra interviste, e recensioni di album e live vari.
Uno solo è un articolo un po’ più “pesante” (per quanto possa essere definito pesante uno dei pochi articoli in cui, mi sembra, non ho nemmeno usato turpiloquio), quello sulle Targhe Tenco.
Che poi è quello per cui mi ha cominciato a conoscere la maggior parte di voi.
E la cosa dà una intima soddisfazione al me bordellaro e casinista, ma infastidisce abbastanza il me che tenta di parlare di bellezza sopra ogni altra cosa: “Ah ma tu sei quello dell’articolo sul Tenco! Come dici? Hai scritto anche altro, tutte recensioni di album molto belli? Beh, buon per te, non li ho mai letti e comunque per me rimarrai quello dell’articolo sul Tenco.”
E tanti bacioni alle mie notti di scrittura ed alle mie ore di ascolti.
E la cosa che mi fa più ridere è che sto passando come una penna temibile, aspetto, questo, che me ne conferma uno ulteriore, vale a dire la percezione che la gente ha di me. E parlo di vita di tutti i giorni, non solo di “vita professionale”. Io passo per quello stronzo, quello che meno ci si ha a che fare e meglio è, quello scorbutico solo perché, spesso, non è esattamente diplomatico. Un gran cagacazzi, insomma. Chiaramente la cosa non mi dispiace affatto, già per il semplice motivo di essere in condizione di poter scegliere da me con chi avere a che fare e con chi no.
E, proprio perché sono poco diplomatico, un’altra delle scelte che faccio ed ho fatto la vado a palesare adesso. Scelta, questa sì, più professionale e strettamente legata al mio lavoro. Non leggo molti altri articoli a tema musicale, le mie letture sono molto ristrette, e sono tali solo perché, leggendo i nomi che sto per farvi, ho sempre qualcosa da imparare, che sia sul piano formale o che sia su quello concettuale. Lo dico- anche se mi sembra francamente ovvio- per evitare che qualcuno possa prendersela, anche perché in realtà non leggo esclusivamente questi nomi, sono solo quelli di cui vado a cercarmi gli articoli se dovessero sfuggirmi. Non è un mistero che la mia “grammatica” l’abbia formata leggendo Michele Monina- so che è una cosa che potrebbe ritorcermisi contro, ma tant’è- e studiando il suo stile ed il suo approccio, così schietto e poco politicamente corretto, alla materia, seppur molto spesso non sia d’accordo al 100%, ma questo è un altro discorso. Poi scrivo spesso, quasi solamente, anzi, di cantautorato e di cantautori: recuperare Enrico De Angelis e leggere (anche qui, non sempre in accordo) Paolo Talanca mi sembra il minimo. Così come sono in fase di recupero degli articoli di Elisabetta Malantrucco (che, per inciso, spero torni presto a farci compagnia in questo “allegro” carrozzone musico- letterario). Non perdo un articolo di Marco Sonaglia, con cui mi accomuna una certa aderenza politica, e, come ho avuto modo di dirle più di una volta, mi piacciono molto le interviste del collega a me più prossimo (per il semplice fatto di scrivere per la medesima testata), Riccardo Rossi, e soprattutto di Giulia Massarelli, per il semplice fatto che abbiamo un modo abbastanza simile di condurle ed intenderle e la stessa curiosità nell’approcciarci agli artisti. Sto leggendo con molto piacere il bel libro di Vito Vita, “Musica Solida”, che è una fonte pressocchè inesauribile di sapere, ed apprezzo molti articoli de “Il giornale della musica” e mi fa impazzire Mario Bonanno su Mescalina. Poi, praticamente, basta.
Anzi no.
C’è una ultima “collega a metà” di cui leggo spesso gli articoli. Si tratta di Roberta Giallo. Parlo di “collega a metà” perché, nonostante i pezzi della sua “Musica in Giallo” (mi fa sorridere la coincidenza (o forse no) che vorrà questo pezzo in pubblicazione di martedì, il giorno solito dell’uscita di “Musica in Giallo”, ndr) siano, almeno da un punto di vista formale, ineccepibili, Roberta nasce cantautrice.
E vi dirò di più: è fra le migliori attualmente in circolazione.
Come potrete aver capito, sempre che la calura estiva non vi sciolga le facoltà cognitive, sono tornato a parlare di bellezza. Di evidente bellezza. Per quanto io possa apprezzare il far baccano- che quando è saputo fare è sempre sacrosanto e benedetto- non mi arrendo all’idea di cedere solo a quello per far parlare.
Roberta Giallo è due facce della stessa medaglia, ed andrebbe ascoltata da tutti (o, quantomeno, da tutti quelli che si occupano di musica, artisti compresi) perché c’è, dentro ai suoi lavori, un quantitativo di fantasia che se decidesse di sparpagliarne qualche pizzico in giro, la Amoroso potrebbe fare musica colta.
E dentro ai suoi lavori ci sono anche intere lezioni su cosa dovrebbe significare “fare musica”, dal punto di vista compositivo, dal punto di vista della scrittura e dal punto di vista interpretativo.
Se sto qui a parlarne è perché mi aveva già stregato con “L’oscurità di Guillaume”.
E mi ha letteralmente conquistato con “Vicina Vicina”, una delle poche uscite quarantenali degne di nota.
La cosa incredibile è che, fondamentalmente, non c’è nulla di estremamente complicato, in quell’album lì: sono “solo” delle cover piano e voce di pezzi dei repertori di Tenco, Dalla e del mio Faber.
Eppure è un album importante per una discreta serie di motivi.
Ci sono quelli puramente tecnici, primo fra tutti la grande capacità interpretativa di Roberta, che qua, visto il contingente minimalismo strumentale, emerge potentissima. Come a dire, se vi interessano la vocalità e le sue modulazioni e la teatralità nell’interpretare un pezzo, beh… siete capitati nell’album giusto, sentire le inflessioni romagnole su “Anidride solforosa” per credere.
Poi c’è la componente emotiva (credo molto poco nell’oggettività in generale, figurarsi poi in quella di chi scrive, ed ancora di più di chi lo fa sapendo di avere la scrittura come unica “arma” di comunicazione) che sta dietro all’album, registrato con un cellulare e con tutti i rumori della vita che, al tempo completamente bloccata, scorreva, comunque, intorno. Questa componente così casereccia fa di “Vicina Vicina” un disco “puro”, nel senso più alto del termine, dietro ci sta solo una cosa: il bisogno di comunicare, anche in questo caso, con una delle poche armi a propria disposizione: la musica. E poco importa se si sente il rumore dei tasti del pianoforte: chi sa ascoltare apprezzerà anche quelli.
E’ un disco politico, una specie di “J’accuse” verso la negligente strafottenza di chi dà contentini agli artisti “che fanno tanto divertire”. Ecco, lì dentro c’è tutta la potenza della musica, quella commovente, quella che ha come compito la necessità di innescare qualcosa, che sia un profondo ragionamento esistenziale o una più umana reazione “uterina”, come ebbe a dire una volta un filosofo mio conoscente.
E poi è, come sempre in questi casi, una vera e propria operazione culturale, che rimette al centro la parola, con la sua importanza e con il suo saper essere spietata. E lo fa già dall’inizio, da quel “Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare” che rimane ancora oggi l’incipit più esplosivo, più incandescente e più definitivo che potesse essere mai pensato per una canzone.
E’ la rivincita della bellezza, quella genuina anche se magari un po’ sghemba.
Ed è anche la rivincita della semplicità, in tutta la sua potenza eversiva e sovversiva.
Un po’ un canto di speranza.
“Vedrai, vedrai Vedrai che cambierà Forse non sarà domani Ma un bel giorno cambierà.”
Articolo del
25/08/2020 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|