Quanto affetto nutrite per i Dream Syndicate? Domanda non banale, né oziosa se ci si trova a formulare un’opinione sull’ultimo lavoro del quintetto, The Universe Inside.
Fin dall’inizio di questa versione anni Duemila dei Dream Syndicate – col chitarrista Jason Victor ad affiancare i già navigati Dennis Duck, Chris Cacavas e Mark Walton – è stato evidente che la rentrée del complesso di Steve Wynn, nel 2017, a quasi trent’anni dall’ultimo album inciso in studio, non fosse da etichettare come “ritorno di musicisti bolliti che battono cassa sfruttando un nome leggendario”.
“How Did I Find Myself Here” e “These Times” erano album riusciti, pieni di vigore ed elettrizzanti, che trascinavano l’ascoltatore col proprio impeto e una vena melodica che non si appannava mai.
In The Universe Inside (sulla cui copertina, non a caso, appare un’immagine psichedelica a la Grateful Dead) si riaffaccia prepotentemente l’idea di flusso di suoni: i brani si dilatano, si allentano i vincoli strutturali della forma canzone, i musicisti si abbandonano a un’improvvisazione collettiva in cui, di volta in volta, gli strumenti si alternano tra sfondo e primo piano.
Un trip ipnotico, introdotto dai venti minuti di “The Regulator” (magma estenuante di fraseggi di chitarre miagolanti, sax, sitar elettrico e armonica a bocca su un tappeto reiterato di basso e batteria), e chiuso con i dieci della lenta, avvolgente “The Slowest Rendition”. L’andamento sinuoso di “The Longing”, di “Apropos Of Nothing” e di “Dusting Off The Rust” sono variazioni sul tema con qualche sussulto.
Prendere o lasciare.
Di fronte a un’opera così free è ipotizzabile che si crei una spaccatura tra i fan di vecchia data. Gli scontenti si lamenteranno di pezzi spesso senza capo né coda, della mancanza di motivi orecchiabili, e della tendenza allo sbrodolamento (che per chi suona può essere esaltante, per chi ascolta un po’ meno).
Chi apprezzerà questa deviazione (ci inseriamo con non solida convinzione in tale gruppo) lo farà, probabilmente, un po’ per l’ammirazione con cui guarda all’artista, e un po’ per il fascino sottile sprigionato da un disco non proprio prevedibile.
In ogni caso, bisogna riconoscere che gli episodi più prolissi di “The Universe Inside” costituiscono un’evoluzione, per quanto radicale, di idee già sviluppate e di percorsi in parte già sondati in passato dai Dream Syndicate. Eseguiti dal vivo, saranno una meraviglia
C’è da sperare, magari, che levatosi lo sfizio della sperimentazione, il buon Wynn torni alla scrittura di canzoni più stringate ed efficaci; di nuove composizioni impetuose e sferzanti, o malinconiche e ammalianti, come quelle che ci hanno fatto amare lui e la sua band in tutti questi anni
Articolo del
05/05/2020 -
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