Diego DeadMan nasce nel 2006 come progetto OneManBand tradizionale (batteria, elettrica, cigar box e voce). In dieci anni Diego si è fatto un migliaio di live, fra Europa e Italia, insieme a Clutch, Turbonegro, Nick Oliveri, Bob Log III, Corey Harris, Handsome Family e All Them Witches.
Una decade dopo, le sue sonorità si spostano verso il folk e dopo il primo disco solista, tre anni fa, oggi ritorna con un album d'inediti, Winter Session. Il titolo rimanda scenari freddi e desolati, spogli, a tinte buie, ammantati d’atmosfere raccolte.
Musicalmente siamo dalle parti dell’Americana prodotta che evoca ricordi lontani, ma ancora vividi, ricchi di sensazioni desolate. Arpeggi acustici, accordi spettrali e inserzioni elettriche guizzano sul canto quasi recitato in “Blind Sisters’ Home” lasciando spazio alle incisive aperture elettriche di “Saint Mary” e “The Hole on the Heart Of The Sun”. In “Blue” la chitarra incide nel profondo mentre in “Saint Mary” spuntano i primi segni di distorsione sui vari strati delle chitarre sovrapposte mentre Poor Boy alza il tiro ritmico sfruttando il supporto di batteria e basso.
“CarnHate”, probabilmente il brano più intenso di questo lavoro, suscita un forte stato melanconico attraverso la voce ruvida che scorre come una carezza sugli arpeggi arricchiti da una dolente sliding guitar. Verso la fine c’è ancora posto per l’intensa “Death Comes To Your House”, dall’incedere costante e dalle atmosfere sinuose, seguita da “Song For Billy Bungler”, sigillo di questo gioiellino nostrano.
Nella copertina senza tanti fronzoli appare solo Diego pesantemente protetto dal freddo, con un cappellino e una giacca da woodcutter, sullo sfondo di un accecante bianco glaciale, rappresentazione di un rigido inverno innevato che amplifica la capacità di osservare da lontano e riflettere lentamente sui cambiamenti del nostro presente. Si tratta di un blues (dell’anima) minimale espresso attraverso note accennate, canto quasi sussurrato e stacchi elettrici in cui Potron calca la mano sugli accordi acustici, sporcati una da una piacevole elettricità.
Cupo e inquieto, l’album procede per nove tracce dal mood insofferente per un disco senza confini geografici, capace di dipingere lande desolate presenti anche in altri autori americani ma registrato nel suo deserto personale. Un lavoro di traslazione (non solo psichica) in cui ogni tipo di cardine, personale, sociale e territoriale, viene divelto dallo strapotere della musica
Articolo del
08/04/2020 -
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