Black Snake Moan, il lamento del serpente nero, è il titolo di uno standard blues di sua maestà Blind Lemon Jefferson, a cui rimanda l’omonimo film con Samuel L. Jackson. Ma Black Snake Moan è anche il nome del progetto solista del viterbese Marco Contestabile, musicista a tutto tondo le cui istanze artistiche sembrano rimandare tanto al Mississippi quanto evocare spiritualmente l’India e la solitudine di deserti interiori anziché corporei.
Phantasmagoria è il titolo scelto per la seconda tappa di questo viaggio autenticamente personale, tutto incentrato sul buio e la luce, l’immaginario onirico, con riferimento alla moda settecentesca di utilizzare le lanterne magiche per proiettare l’effigie di spettri ed entità soprannaturali.
Ci sono almeno due modi di realizzare un disco: il primo studia sostanzialmente il mercato e pianifica a tavolino un business plan da offrire in pasto all’uditorio pagante; il secondo nasce da dentro per sfociare in un prodotto che parli di sé in maniera soprattutto onesta. Non v’è dubbio alcuno che questo Phantasmagoria appartenga alla seconda categoria e non solo perché lo dice l’autore. Anzitutto la scelta di consacrarsi al blues contaminandolo con psichedelia, stoner e desert rock, in bilico tra Doors, 13th Floor Elevators, Black Angels e atmosfere smaccatamente sixties, non è propriamente inseguire ciò a cui il mercato discografico odierno aneli in prima battuta. L’idea della one man band e del cantato in inglese completano il quadro. Sia dunque lode, come dovrebbe essere ogniqualvolta un artista intraprenda un percorso coraggioso e intellettualmente irreprensibile. Se poi alle buone intenzioni si aggiungono non comuni capacità di mantecare suoni e colori allora anche l’ascolto diviene volano di sospensione e arricchimento interiore.
Nove brani e moltissima musica, una gittata di mezz’ora abbondante senza mai neppure sfiorare la monotonia o il ripetersi fine a se stesso. Non è facile, da soli, soprattutto dal vivo, senza approfittare delle inserzioni di altri musicisti. Marco Contestabile riesce nell’impresa grazie all’estrema cura nella scelta delle timbriche e all’uso sapiente della dinamica. Sitar, chitarre a dodici corde, tampura (spesso utilizzata come bordone), synth e l’immancabile accoppiata percussiva cassa/hi-hat suonati con i piedi sono gli ingredienti di un disco da ascoltare dall’inizio alla fine, gustandolo appieno, senza soluzione di continuità e senza volerne a tutti i costi estrarre un episodio specifico. Ogni secondo è avvolto da un’atmosfera spirituale ma mai posticcia, psichedelica e non forzata, sovrastata da una voce profonda e a tratti solenne che molto deve nell’impostazione al Re Lucertola e che sa tratteggiare linee melodiche raffinate e cangianti. Non stupisce affatto che il progetto Black Snake Moan raccolga riscontri positivi soprattutto all’estero, dove il pubblico è mediamente più avvezzo a prestare attenzione e a godere della buona musica.
Ascoltatelo quasi fosse un’unica magmatica suite questo Phantasmagoria, come nove parti di un grande mantra nato a Tarquinia ma pensato per elevare e portare altrove, con quel proposito ormai carbonaro di restituire alla musica la centralità di un ruolo che non sia solo sciatto sottofondo. Suono ciò che sono e sono ciò che suono. Non è così difficile, basterebbe guardarsi dentro
Articolo del
01/11/2019 -
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