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Oggi la macchina del tempo ci porta indietro al 1966, esattamente nella NYC dei rivoluzionari Sixties, anzi nella NYC raccontata dai Velvet Underground. La Grande Mela ha ospitato molte delle esibizioni della band, in particolare quelle più famose del biennio ’66 - ’67, che la vede protagonista decisamente sotto una luce diversa.
Con i Velvet Underground si avrà un rovesciamento radicale di quei temi decantati dalla musica contemporanea dell’epoca, di quella dei Beatles per esempio. In un contesto sociale dominato da manifesti Peace&Love, i VU rappresentano l’altra faccia degli anni sessanta, il lato oscuro della metropoli newyorkese: i testi celebrano una visione nichilista del sesso, dell’uso di sostanze stupefacenti, perversioni di diversa natura; poi, la morte espressa attraverso sonorità inquietanti e distorte. I Velvet Underground raccontano il realismo della NYC notturna e decadente. Un racconto che nessuno mai prima di loro, abbia scritto e musicato.
La Grande Mela vede i Velvet Underground formarsi, cambiare più volte componenti del gruppo, ma soprattutto vede mettere in scena, in modo spinto e deforme, la controcultura. Un live che rappresenta la svolta nella storia della band è quello del 15 dicembre 1965 tenutosi in un locale dal nome cacofonico Café Bizarre. Allo spettacolo quella sera assiste Paul Morrisey, manager e veterano della Factory, tempio dell’arte di Andy Warhol localizzato nella 47th Street, nel cuore di Manhattan. Fu proprio Morrisey ad organizzare un incontro tra i Velvet Underground e Andy Warhol il quale li vorrà, senza esitazione alcuna, vedere bazzicare regolarmente alla Factory.
Dalle gloomy periferie di New York, i VU passano dal nulla al luccichio di Manhattan. Warhol, diventa il manager ufficiale della band e per prima cosa ne stravolge la formazione introducendo un’altra donna, dalla presenza scenica impressionante, nella band: seminatrice di fascino e caratterizzata da un’ eleganza distaccata, la bionda Christa Päffgen in arte Nico, rimpiazza il discutibile ruolo di Lou Reed come frontman del gruppo. Non si può certo dire che Lou fosse un re nell’arte della performance: detestava stare al centro dell’attenzione, ma più che altro quella di Andy fu una scelta di marketing: Nico conferiva alla band, ancora esordiente negli ambienti della mondanità newyorkese, senz'altro una certa coolness. Sebbene nei nuovi contesti si sentissero spesso dei pesci fuor d’acqua, in casa Warhol, invece, acquistavano una certa sicurezza: la Factory per i VU, era diventata la casa dove ogni cosa poteva definirsi possibile, fallace, effimera, ma possibile: si sentivano compresi, incoraggiati, liberi di fare, ma soprattutto liberi di essere. Nel gennaio del 1966 iniziano le prime apparizioni come The Velvet Underground & Nico. In una celebre intervista Andy Warhol dichiara:
“We’re sponsoring a new band, it’s called the Velvet Underground…since I don’t believe in painting anymore, I thought it would be a nice way to combine music and art and films all together…it might be very glamorous”
Si trattò praticamente di questo: una miscellanea di diverse espressioni artistiche, con al centro della scena i VU, affiancati dalla presenza statuaria di Nico capace di creare un’atmosfera di rigore classico e, allo stesso tempo, di surrealismo cupo e instabile. Nel frattempo un uomo e una donna, con fruste e stivali in pelle, erano impegnati a frustarsi a vicenda simulando una danza erotica; sulle pareti venivano proiettate sequenze tratte da diversi film di Warhol sovrapposte dalle ombre del corpo di ballo della Factory, dal quale spicca l’icona degli anni ‘60 Edie Sedgwick, musa del regista, danzante con charme sulle musiche dei Velvet Underground.
Gli Show alla Factory avevano qualcosa di familiare ed alienante allo stesso tempo. Un film documentario dal titolo The Velvet Underground & Nico: A Symphony of Sound, girato ovviamente da Warhol, documenta una session del 1966 che potrebbe forse dare un’idea di quello che succedeva alla Factory: sul finire del film, per via della musica assordante, arriva la polizia che scioglie la seduta e, almeno in quell’occasione, non sembra aver arrestato nessuno.
Dopo le prime esibizioni che segnano l’esordio negli ambienti mondani della Grande Mela, Warhol organizza un vero e proprio show multimediale nella sede della Film - Makers’ Cinematique, che in un primo momento prende il nome di “Andy Warhol Up - Tight”, per poi esplodere nella serie di spettacoli passati alla storia come “The Exploding Plastic Inevitable”. In queste occasioni, il tutto si fa ancora più surreale: film in bianco e nero alternati a sequenze a colori, danze barcollanti improvvisati dalle aspiranti star della Factory su un rock che suonava singolare per quel tempo; rumori assordanti sfumati dal cantato malinconico di Lou Reed. Heroin probabilmente è il testo più emblematico a riguardo: un brano di sette minuti che segna già una rivoluzione, rispetto ai due/tre minuti standard di brani previsti per un’esibizione; “Heroin” è la rappresentazione musicale dell’autodistruzione di un eroinomane: la voce di Lou Reed e la musica diventano, insieme, forze demolitrici sempre più disarmoniche e accelerate.
New York è piena di rumori privi di significato, che potrebbero essere la sua grazia redentrice. Lou Reed, 1966
Gli spettacoli lasciano il pubblico alquanto scosso, ma l’audace personalità di Warhol spinge la band e tutti gli artisti della Factory a partire per una lunga tournée che arriva fino in Canada. Il periodo aureo, o meglio glamour, che vede i Velvet Underground insieme a Nico tutelati dalla stravaganza di Andy Warhol gode di una certa brevitas, sufficiente però, a segnare una parentesi storica, molto figa e particolare, arrivata fino ai giorni nostri.
I VU portano all’interno del favoloso mondo della Factory un certo spleen ereditato dai bassifondi newyorkesi e la Factory, a sua volta, garantisce ai VU un livello di notorietà che, forse senza Andy, non avrebbero mai raggiunto. Warhol procura alla band un contratto discografico con la Verve Records/MGM e nel 1967 arriva il disco d’esordio: The Velvet Underground & Nico prodotto da Andy Warhol che, in realtà, non si impegna nemmeno a recitare il ruolo del produttore, anzi consapevole delle mancate competenze musicali in ambito tecnico, lascia al gruppo libera sperimentazione. Disegna, invece, l’iconica cover del disco raffigurante la banana che, se sbucciata con cura, darà vita a un rosa accecante: un “delicato” tocco stile pop art, degno di Warhol. Il disco venderà poco, tuttavia, il lascito a band successive è notevole: basti pensare alla versione di “I’m Waiting For The Man” di Bowie e ad elementi rintracciabili in gruppi come i Sonic Youth, gli Stooges, i Talking Heads, Sex Pistols o i Joy Division.
Infine, la bellissima “All Tomorrow’s Parties”, brano che evoca stranamente un’atmosfera hippie, racchiude bene la vera essenza della Factory e della gente che la frequentava: velleità tramutate in cenere da un giorno all’altro.
E quale vestito indosserà mai la povera fanciulla A tutte le feste di domani?
Un’intervista a Lou Reed, rilasciata probabilmente “sotto tortura”, sembra confermare tutta la storia controversa di una band che, grazie all’incontro fortunato tra Lou e John Cale, passa alla storia con il nome di The Velvet Underground.
Journalist: Do you like performing? Lou Reed: No. Journalist: Why do you do it? Lou Reed: Because I don’t like it. Journalist: You like doing things you don’t like? Lou Reed: Yes. That’s paradoxal, isn’t it? Journalist: That’s sure is.
Articolo del
19/06/2021 -
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