Quando, con i ForaTiempu, abbiamo fatto il nostro primo concerto, anno domini 2016, avendo cominciato l’avventura da pochissimi mesi, nemmeno un paio, avevamo in scaletta una manciata di pezzi, cinque o sei, non di più.
Il primo concerto, appunto, fu una specie di ospitata durante la sagra paesana di Campofiorito. Senza palco, messi su un marciapiede con amplificatori e microfoni sistemati alla bell’e meglio. Scaletta esigua, dicevamo: mi sembra ci fossero “I treni a vapore”, “Una città per cantare”, un paio di pezzi in palermitano di Claudio, una versione sicula di “Knockin’ on Heaven’s door” ed “Andrea”.
Su “Andrea” successe un mezzo finimondo e ci bollarono d’emblèe come comunisti. Capirete bene che la cosa mi fece (e continua a farmi fare) grassissime risate: intanto perché cercare di dare un colore politico ad un gruppo nato solo per far stare insieme- con la musica- dei ragazzi abili diversamente ha una credibilità pari a certe recensioni, fortunatamente poche, che spuntano su Vinile. E poi perché si prese un dato che era sotto gli occhi di tutti- la rossezza di un paio di noi- e lo si capovolse spostandolo su una cosa altra- la musica- prendendo come pretesto una canzone- “Andrea”- che di comunista non ha assolutamente nulla. Vedi i labirinti cerebrali della gente.
Adesso, io sono partito da un fatto di per sé assurdo, e nei modi e nel contesto, per dire che comunque, da qualsiasi angolazione la si guardi, la musica rimane un fattore anche politico, come, d’altro canto, praticamente tutto quello che riguarda il vivere in una comunità.
E, nel continuare a chiedermi cosa ci sia di male qualora l’opinione politica entrasse più prepotentemente dentro la nostra musica, mi viene ancora di più da sorridere se penso che, per quanto impegnato possa essere il nostro repertorio, noi siamo tutto fuorchè colorati politicamente.
In tutta onestà pagherei per vedere la faccia di questo luminare che al tempo ci tacciò di comunismo se si trovasse ad assistere ad un concerto della Banda Bassotti o dei Gang o dei Sambene.
Ecco. Sono arrivato al punto. Lo sapete, faccio sempre così, ve lo dovevate aspettare.
Dei Sambene ho già parlato qualche mese fa, di loro e del loro “I Sambene cantano De Andrè- di signori distratti, blasfemi e spose bambine” avevo fatto circostanziato racconto.
Adesso mi trovo a scriverne di nuovo perché, per una serie di circostanze tutte musicali, mi sono trovato spettatore (e non solo, ma questa è un’altra storia) di un loro concerto. Concerto che hanno tenuto nella piazza di Senigallia, ormai quasi una settimana fa.
Concerto che, giusto per rimanere in tema, faceva da chiusura alla campagna elettorale di una compagna e, soprattutto, alla campagna elettorale per il no a quel referendum brutto brutto che, spiegato in poche parole, equivale a privarsi delle virtù adamitiche perché vai troppe volte al cesso e spendi troppo in acqua.
Con questi antefatti, non poteva che venirne fuori un concerto sentito ed appassionato, nonostante l’organico ridotto (Marco Sonaglia chitarra e voce, Roberta Sforza e Veronica Vivani voci e percussioni) e le restrizioni d’orario causa par condicio. Concerto, mi sembra abbastanza evidente, acustico, composto da un paio di pezzi di Faber, dall’immancabile “Nunzia”, ormai inno del pubblico dei Sambene, regolarmente cantata insieme al pubblico, da una doppia versione di “Bella Ciao” (da brividi la versione a cappella di “Bella Ciao Mondina”, con le sole voci di Roberta e Veronica a reggere il pezzo), da una splendida “Comandante Che Guevara”, dalla “Fischia il vento” finale, da una versione di “Alle Barricate” dei Gang che anche in acustico è fuoco.
Ah, il concerto era l’undici di settembre, adesso mi ricordo bene.
Ecco, l’undici settembre per molti significa Torri Gemelle. Per altri una puntata della Melevisione mai finita. Per altri ancora significa golpe di Pinochet in Cile. Tanto per tornare alla musica, chè la lezione di storia le può tenere tranquillamente gente più preparata di me, ricordo solo che tra le vittime del Regimen Militar cileno ci fu anche Victor Jara, voce coraggiosa e dissidente del Sud America.
All’undici settembre di quelli come noi i Sambene hanno dedicato “Salvador”, pezzo che I Nomadi scrissero in omaggio a Salvador Allende, ed “El Pueblo Unido”, brano degli Inti Illimani, altre voci dissidenti del Cile resistente.
Perché la musica è, come tutte le forme d’arte, un modo di comunicare. Ed, esattamente come la comunicazione, non può essere asettica: per funzionare, si deve schierare. Poi si può o meno essere d’accordo, esattamente come accade con le parole, ma intanto il pensiero, la tensione, quello che chi fa (o spesso presume di fare) teatro “alto” chiama, sbrodolandosi addosso fiumiciattoli di vanagloria, “conflitto”, ci devono essere. Sono- anche loro- il sale della canzone e della musica.
E’ un discorso politico quello che ha spinto Lomax e Carpitella a fare quell’enorme lavoro di riscoperta della tradizione musicale pugliese. E’ un discorso politico che fa distribuire ai Clash “London Calling” facendolo pagare come disco singolo nonostante fosse un doppio e loro fossero praticamente spiantati. E’ un discorso politico anche Cesare Basile che non va a ritirare la Targa Tenco perché c’era di mezzo la Siae. Sono tutti discorsi politici. Politici perché schierati, partigiani nel senso più alto del termine.
Ecco, anche questa è musica. Ed anche questa è Resistenza.
Alle Barricate!
Articolo del
20/09/2020 -
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