C’è vita anche oltre il folk! Questo deve aver pensato Glen Hansard prima di scrivere, comporre, registrare e dare alle stampe il suo ultimo disco, This Wild Willing, uscito lo scorso aprile. Forse stanco di seguire la sua proverbiale e formidabile vena acustica e appunto folk (per quanto spesso tinta di soul e rythm and blues che trasformano la sua tempra irish in qualcosa di unico e prezioso) ha deciso di spostare il suo orizzonte sonoro, cercando un’ispirazione che era da sempre nelle sue corde e nei suoi ascolti, ma che dentro i suoi dischi probabilmente non era mai davvero entrata.
Parafrasando una sua recente dichiarazione, Glen Hansard è ad esempio un grande amico di Damien Rice, ma alla fine non è quella la musica che ascolta: perché allora non provare a colorare le sue canzoni con nuove sonorità, magari meno acustiche, cercando una nuova versione di sé stesso? Detto, fatto: This wild willing è il disco spiazzante e anche complesso che Glen Hansard porta sul palco dell’Auditorium Parco della Musica in una fredda sera di novembre che non mancherà di riscaldare con la sua irresistibile empatia da palcoscenico. Si, perché, è vero che la band non è più un trionfo di archi, fiati e coriste, ma è davvero superlativa: l’eccezionale Javier Mas (chitarra classica e elettrica, già al lavoro con Leonard Cohen), Joseph Doyle (basso), Rob Bochnik (chitarre), Earl Harvin (batteria), Romy (piano), la giovanissima Colin al violino, e Michael Buckley (sax, flauto e mellotron).
Ed è anche vero che l'apertura poco dopo le 21, affidata al brano “I’ll be you, be me” che apre anche This Wild Willing, è proprio il manifesto del nuovo sound, con un fill elettronico di batteria, l'andamento ipnotico con strepitoso crescendo finale, e la voce che accarezza le parole quasi in punta di microfono. Ma lui, Glen, è sempre lui, con la sua presenza carismatica, in elegante (ma mai troppo!) giacca blu, i riccioli rossi ormai sbiancati, la imponente barba bianca e riccia anch’essa, e la chitarra acustica sguainata a mò di moschetto.
Basta un solo brano da This Wild Willing, e già le cose sono messe in chiaro: le nuove canzoni (saranno sette quelle estratte dal nuovo disco) acquistano più corpo e anima rispetto alle versioni studio dove già lasciavano intuire le loro suggestioni, concentrate soprattutto a metà scaletta e nel finale, fatta eccezione per una avvolgente e orientaleggiante The closing door eseguita nella prima parte. Glen ripesca due o tre cose dai vecchi dischi dei The Swell Season (una dolcissima “The moon” e una intensa “When your mind’s made up”) e dei The frames: bellissima “Fitzcarraldo”, uno dei momenti più belli della serata così come “Star Star”, per la quale invita sul palco l’amico Fabrizio Fontanelli (suo compagno di avventure già a Dublino anche con un altro grande songwriter dublinese, Mark Geary) che duetta benissimo alla voce con lui, con tanto di snippet di Hotellounge dei dEus, e di “The most beautiful widow in town” dei Sparklehorse.
L’atmosfera dell’Auditorium come sempre in questi casi, affascina da un lato, col suo trionfo di legno e poltroncine e la sua acustica al limite della perfezione, e dall’altro un po’ inibisce la platea che vorrebbe lasciarsi andare ma finisce col trattenersi, quasi incantata da cotanta bellezza intorno. Glen scherza col pubblico, richiama all’ordine bonariamente (ma non troppo) un signore delle prime file che lo acceca con la luce del suo cellulare, si siede al piano per una intensa “Bird of sorrow” ripresa dal suo esordio solista, e della quale ad un certo punto sbaglia gli accordi, chiudendola battendo le dita a caso sui tasti e girandosi con un non troppo colpevole e disarmante sorriso verso il pubblico. Dal primo disco a suo nome, “Rhythm and Repose” del 2012, arriva anche una travolgente “The gift” suonata sempre da solo ma alla chitarra acustica, graffiata nel finale ruvidissimo e potentissimo del pezzo. Silenzio assoluto e emozione palpabile nei momenti in cui abbandona il microfono e si sporge dal palco verso la platea, a voce viva, intenso, magnetico, irresistibile (nel finale di “Her Mercy”, ad esempio o in una magistrale “Grace beneath the pines”) esibendo una potenza e un controllo vocale davvero notevoli e sorprendenti.
Tanti però sarebbero gli episodi (da “Leave a light” dedicata all’amico Danny Sheeney, alla robusta “Way back in the way back when”, cantata insieme al coro del pubblico) da sottolineare di una serata davvero splendida. Manca all’appello “Winning Streak”, che per una volta resta fuori scaletta, forse anche a voler tracciare un minimo stacco rispetto al Glen Hansard di questi ultmi anni (e soprattutto quello trionfalmente folk di Didn’t he ramble, del 2015). In questo senso “Fool’s Game” chiude il set prima dei bis, tracciando un ponte ideale con il nuovo possibile percorso: voce trattata con un pizzico di autotune, atmosfera rarefatta, il sax a dettare un contraltare alla linea vocale insieme a spazzole e pianoforte, prima dell’esplosivo crescendo finale. Nuovo e vecchio si incontrano con risultati già di altissimo livello.
I bis sono stringatissimi, perché come sempre al Parco della Musica gli orari sono tassativi. C’è spazio per “Song of Good hope” (e qui si respira tantissimo Damien Rice), “The world” cantata insieme all’autrice Nina Hynes, che ha anche fatto da opening act alla serata, mentre la conclusione è affidata a “Good life of song”, che sfocia nell’immancabile (questa si) “Falling Slowly” che valse l’Oscar come miglior canzone a Glen Hansard nel 2006, e colonna sonora del film Once (nel quale l’autore recitava anche).
Poco dopo le 23.30 si spengono le luci sul palco e tocca abbandonare a malincuore la sala. Come sempre Glen Hansard ha il potere di alternare gioia e malinconia, poderose sfuriate alla chitarra acustica con voce rotta e straziata, a gioiellini di brillante e luminosa tenerezza. E’ stato tutto questo (e molto altro) anche nel suo concerto romano, con una naturalezza e una sincerità che non ammettono dubbi o incertezze: ti puoi fidare e porterai a casa una serata di belle emozioni destinate a resistere al tempo
Articolo del
14/11/2019 -
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