Oggigiorno non sono poche le recensioni con cui si commenta la musica italiana contemporanea ad essere caratterizzate dall’iperbole. Anche sulle testate più autorevoli si incensano dischi gradevoli, spacciati per opere d’arte, o si presentano concerti di nuove star delle sonorità più in voga facendo riferimento (un esempio recente) a presunti “spunti folgoranti” offerti da testi che parlano di pioggia, finestrini e tombini.
Conseguenza inevitabile dell’attenzione eccessiva dedicata ad alcuni artisti è che altri rimangono un po’ nell’ombra, lontani dai clamori del grande pubblico. Uno di questi è Antonio Di Martino, musicista siciliano il cui esordio risale a una decina di anni fa, che attualmente è in tour per promuovere l’ultimo album “Afrodite” (2019).
Chi in passato ha assistito a un’esibizione della sua band ha già avuto modo di apprezzarne le peculiarità: la passione con cui suonano i membri del complesso, la loro sobrietà, il calore umano, il coinvolgimento emotivo degli spettatori, l’atmosfera familiare che si crea, una canzone dopo l’altra.
Rispetto a un concerto tenuto al Monk qualche anno fa, stasera la formazione ampliata a quartetto (con il valido apporto di Simona Onorato, voce, chitarra elettrica e tastiere) crea un amalgama sonoro ancora più efficace. Nella resa dal vivo, alcuni pezzi nuovi hanno un sound levigato; forse troppo levigato: basso, batteria e tastiere rimandano a un groove radiofonico fra anni Settanta e Ottanta. Ci diamo un bacio, Giorni buoni e La luna e il bingo sembrano esercizi di stile; il singolo Cuoreintero ha tutti gli ingredienti indispensabili per riscuotere successo.
Però non sono brani come questi a distinguere la musica di Dimartino, né la rilettura di Feste Comandate (sebbene non priva di fascino), la forza travolgente, quasi punk, di Pesce d’aprile, o lo strumentale La foresta, con un giro di piano che a chi scrive ricorda la coda di Epic dei Faith No More.
La sua impronta si trova piuttosto nella scrittura di melodie orecchiabili ma non banali, che sul piano espressivo scartano sapientemente il già sentito. In Cercasi anima e I Calendari, per esempio, che paiono attingere anche alla tradizione folk; nel crescendo di Daniela balla la samba; negli arpeggi della tastiera che, sposandosi mirabilmente col lavoro della sezione ritmica, danno vita a una ballata malinconica come Maledetto autunno e all’intensità formidabile con cui vengono interpretate Come una guerra e Niente da dichiarare. Quest’ultima, bellissima, e struggente quando gli strumenti si fermano per lasciare in primo piano il canto e le armonie vocali, costituisce una prova brillante di canzone d’autore dei nostri tempi con testo impegnato che lambisce la poesia senza abbandonarsi a sproloqui da politicante.
Tanti dei presenti cantano a squarciagola, c’è un’aria festosa; alcune apprezzabili composizioni del repertorio di Dimartino stasera sono diventate piccoli, commoventi capolavori. Eravamo arrivati al Monk pensando di assistere a un concerto piacevole, tenuto da un artista di cui conoscevamo superficialmente un paio di dischi; ne usciamo enormemente meravigliati, con la pelle d’oca a ripensare a quanto sia stata coinvolgente parte del set
(foto di Irene Pacelli)
Articolo del
17/03/2019 -
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