Credo che ogni persona abbia una propria valigia dei sogni che non dovrebbe mai dimenticare di portare dietro
Un disco scritto durante la pandemia e il lockdown, quando il mondo e soprattutto la musica si sono fermati. La Valigia dei Sogni è l’ultimo lavoro del chitarrista Daniele Morelli, scritto con la collaborazione del batterista Matteo D’Ignazi e uscito per l’etichetta Off Record Label. Un lavoro sperimentale che unisce il jazz con la psichedelia e in cui si sente la presenza del Messico, ormai da tempo terra adottiva del musicista toscano. Abbiamo approfondito questa storia parlandone direttamente con il leader di questo progetto
Daniele in questo disco troviamo diverse influenze musicali: dal jazz, alla psichedelia passando anche per la musica messicana: come convivono questi linguaggi nel disco? Credo che tutti questi linguaggi convivano abbastanza bene (ride). Ho cercato di trovare i punti in comune tra tutte le mie influenze musicali facendole andare d’accordo senza forzarmi a suonare un genere specifico. Penso che la musica sia un linguaggio unico e che ci siano stili e generi che funzionano come se fossero vari dialetti dello stesso linguaggio. Questi anni in Messico mi hanno ancora più convinto di questa cosa
Il titolo del disco “La Valigia dei Sogni” è molto evocativo: ci vuoi raccontare perché questa scelta e cosa rappresenta? I sogni rappresentano una interpretazione creativa della realtà, come se fossero una seconda vita. Questo disco è stato registrato durante il periodo più intenso della pandemia. E’ stato un cambiamento abbastanza drastico di stile di vita un po' per tutti. L’attività concertistica eliminata del tutto, voli e viaggi cancellati così la mia valigia è rimasta per diversi mesi vuota e inutilizzata. Simbolicamente questa valigia è stata riempita di sogni, riflessioni, immaginazione e soprattutto musica che riesce a descrivere nei dettagli emozioni e sentimenti. Credo che ogni persona abbia una propria valigia dei sogni che non dovrebbe mai dimenticare di portare dietro in qualsiasi situazione. Preparata nei minimi dettagli, pulita e ordinata questa è una valigia effimera fatta di musica e invisibile agli occhi, una valigia dei sogni.
La Valigia dei sogni è un progetto a nostro avvisto minimale: Che linea compositiva hai scelto per questo disco? In questo periodo senza concerti né viaggi passavo le giornate studiando e praticando la chitarra e di solito dopo qualche ora di studio lasciavo esprimere la creatività e l’immaginazione liberamente. Dedicandomi al jazz avevo sempre suonato lasciando molto spazio all’improvvisazione e a lunghi soli ma con questo disco la linea compositiva è stata diversa. Mi sono concentrato molto più sulle melodie principali di ogni brano ricercando un suono e un timbro specifico per ogni tema. L’assenza di lunghi soli nasce proprio dall’intenzione di fotografare particolari emozioni del momento, un intento di bloccare lo scorrere del tempo e rendere la musica un po' più visuale.
E come avete lavorato alla stesura dei brani? Con Matteo D’Ignazi alla batteria ci conosciamo da tantissimi anni, da quando eravamo bambini, e abbiamo suonato in molti progetti diversi. Basicamente non abbiamo quasi mai parlato di musica durante le registrazioni. L’intesa estetica era implicita così come la presenza di un amico in comune per le registrazioni, il signor metronomo. Abbiamo registrato a distanza, io dal Messico e Matteo dall’Italia. Quando ritenevo che tutte le parti di chitarre registrate erano finite le inviavo a Matteo che ci lavorava sopra con batteria e percussioni e che, a mio parere, ha fatto un lavoro molto sensibile e brillante su ogni brano. Così abbiamo lavorato alla stesura di ogni brano lasciando scorrere le idee e senza troppi discorsi
Sei in Messico da tanto tempo ormai: perché questa scelta di rimanere in questo paese? Certo non avrei mai pensato di rimanere in Messico così tanti anni. La prima volta venni a Città del Messico partecipando al tour di una band italiana. Suonai un mese con “Los Tamales de Chipil” e ritornai ad Amsterdam dove abitavo all’epoca. Dopo un anno decisi di venire in Messico in viaggio da solo e conobbi la scena jazz messicana: da quel momento cominciai a suonare quasi tutte le sere e questo era un ritmo impensabile nelle fredde terre del nord Europa dove si sente molto la differenza stagionale rispetto a concerti ed eventi. Mentre in Messico, terra del Sole, i concerti erano e sono all’ordine del giorno. Grazie alla musica ho avuto la possibilità di conoscere e vivere non solo a Città del Messico ma anche in Yucatàn, Chiapas, Oaxaca. Il territorio messicano è talmente vasto e vario che non mi sono mai accorto del passare degli anni e mi ha aiutato a ritrovare un senso alla mia musica fuori dalle competizioni lavorative delle capitali europee. Una delle cose per cui ho scelto di rimanere in questo paese è stato proprio il fatto che mi ha dato l’opportunità fin da subito di poter vivere di concerti dal vivo, mentre in Europa l’economia girava soprattutto intorno alle lezioni di musica.
E cosa ti ha affascinato di più di questo paese a livello musicale e culturale? In Messico la musica è parte integrante della società più che in altri posti. Però credo che la cosa che più mi ha affascinato sia la presenza di tanti gruppi indigeni e diverse etnie che mantengono le proprie tradizioni, lingua e musica ancora oggi. La musica viene ancora usata non solo per intrattenimento ma anche nelle cerimonie e soprattutto con un senso rituale che purtroppo il mondo occidentale ha perso quasi del tutto. In questi anni ho conosciuto e vissuto tra persone di diverse etnie, lacandoni, wirrarikas, chamulas, mixes. La ricchezza culturale è infinita se pensiamo che in Messico oggi si parlano 68 lingue originarie diverse oltre allo spagnolo.
Come si vive la musica da quelle parti? A questa domanda preferisco rispondere con una piccola storia. Una volta, quando abitavo in Chiapas, un amico mi disse che ci sarebbe stato il primo anno di anniversario di un miracolo che era capitato in una piccola comunità Tsotzil nelle montagne a un’ora da San Cristòbal de las Casas. Alle 8 di mattina prendiamo un taxi che ci porta in questa comunità di circa 300 persone. Una volta arrivati sembrava che fossimo i primi bianchi a mettere piede in quel posto. Ovviamente la diffidenza aumenta quando chiediamo se era possibile conoscere la persona del miracolo e cioè la persona che, aprendo una pietra, vi trovò impressa l’immagine della Vergine di Guadalupe. Alla fine riusciamo ad avere il consenso dei capi villaggio per conoscere il ragazzo che ci racconta la stori. Infine siamo stati accettati da tutta la comunità e abbiamo mangiato e festeggiato con loro. Per ricordare il miracolo gli indigeni avevano costruito una piccola Chiesa con un piccolo altare dove avevano messo le due facce della stessa pietra con l’immagine della vergine. Una chiesa senza sacerdote e senza sedie e con una certa temperatura dovuta alla quantità di candele accese e alle bottiglie di Posh (un superalcolico ricavato dalla canna da zucchero) che si servivano ai presenti. Fuori dalla chiesa c’era una banda di strumenti a fiato composta almeno da 30 persone che mi ricordo faceva le vesti della musica d’intrattenimento per la festa. Con il lasciapassare dei capi villaggio potemmo entrare in Chiesa e partecipare alla cerimonia più intima. Il pavimento della Chiesa era coperto da aghi di pino, 3 persone anziane vestite di bianco suonavano degli strumenti primitivi, un violino con una corda sola, un flauto e un tamburo ripetendo sempre la stessa melodia con delle piccole variazioni mentre le persone ballavano scalze in direzione delle pietre del miracolo. All’improvviso uno tra i più anziani del villaggio che stava battendo i piedi a tempo con la musica mi prese per il polso continuando a tenere il ritmo. All’inizio non capivo bene poi vedendo che il tipo non mi aveva mai guardato negli occhi né parlato e continuava a stringermi il polso ballando iniziai a battere i piedi a tempo pure io. Aveva lo sguardo come se fosse in una dimensione parallela e non mi lasciò il polso per almeno 20 minuti. Così andavamo a ritmo insieme. Fu la prima volta che mi avvicinai a uno stato di trance collettiva. Ecco un esempio di come si vive la musica da queste parti.
Il disco è stato registrato durante la pandemia: quanto ha influito questo periodo su di te e quanto ti ha cambiato? Come dicevo è stato un periodo senza concerti, senza prove e senza viaggi. Quando è iniziata la pandemia stavo vivendo a Città del Messico ma visto che i mesi passavano e la situazione non cambiava decisi di ritornare a Oaxaca dove avevo già abitato, ma stavolta fuori città, in una zona naturale sotto le piramidi zapoteche di Monte Albàn. In sintesi, non mi restava altro che accettare il cambio e in qualche modo rifugiarmi in una zona aperta di campagna lontano dagli affollati centri urbani. Come musicista non dovevo più preoccuparmi della promozione dei concerti e di tutti quei fattori esterni che vanno presi in considerazione e mi sono dedicato completamente a me stesso e a rivivere ogni giorno un viaggio introspettivo attraverso della musica, fine a se stessa e senza nessun obiettivo. Così questo disco è nato un po' per gioco e per far esprimere la parte più intima di me stesso lontano dai palchi e dalle città.
Un’ultima domanda: ci sarà modo di vederti anche in Italia prossimamente? Certo, stiamo pensando di organizzare dei concerti per la prossima primavera e non vedo l’ora di ritornare a suonare in Italia. Grazie!
Articolo del
16/11/2021 -
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