La recensione di "L'ultima Casa Accogliente": http://www.xtm.it/DettaglioMusicAffairs.aspx?ID=20702
Nell’intro della recensione de “L’ultima casa accogliente” avevo raccontato del mio “incontro” con gli Zen Circus. Mi ero limitato a riportare della faccenda Appino-The Voice, dal quale nacque la mia attenzione verso di loro, e di come, dopo averli ascoltati, mi ci fossi particolarmente appassionato.
Quello di cui non ho parlato è il perché, dopo il primo ascolto, gli Zen mi avessero tanto colpito.
Credo fermamente nel fatto che, per quanto ci si possa formare musicalmente e culturalmente, la scelta dei nostri riferimenti rimanga comunque dettata da affinità elettive: io ascolto quel determinato artista perché in quello che canta, possibilmente anche in come lo canta, ci trovo qualcosa che me lo avvicina umanamente.
Ecco, gli Zen li ho sentiti fratelli perché con loro ho trovato qualcuno in grado di cantare la provincia, quella polverosa, quella spesso soffocante, ma che è anche in grado di fare da incubatrice ad idee interessanti, piena com’è di una fauna tanto variegata quanto maledettamente umana.
In questa intervista c’è, ovviamente, tanta provincia. Si respira proprio la sua aria, avendo a che fare con gli Zen è impossibile che non sia così.
Poi c’è anche tanta, tantissima musica, anche lì non poteva essere altrimenti: è sempre così quando hai a che fare con chi la musica l’ha fatta per davvero,
Fisicamente, nel senso più alto del termine, quello dello scambio e della socialità, quello che una espressione nata freddamente sbagliata ci sta abituando a perdere.
Musica fatta per strada, macinando chilometri, cadendo, rialzandosi, ma sempre, sempre, con uno strumento in mano.
Come è giusto che sia.
“Una poesia va scritta, dedicata e poi abbandonata, chi la usa per piacere agli altri, beh… l’ha sprecata”. Intanto, e mi fa molto piacere parlarne con te, quale è il rapporto fra poesia e canzone, e poi cosa significa non sprecare una canzone?
Quel verso è abbastanza paradossale: spesso, fra di noi, anche scherzando, riflettiamo sul fatto che sarebbe necessaria un’arte assolutamente inedita, fatta in libertà. Un’ arte che possa essere utilizzata veramente per mero fine creativo e non per utilizzare i desiderata o le volontà del pubblico, che poi è sempre stato il credo degli Zen, comunque. Poi, beh… non tutte le canzoni sono poesie, alcune però possono diventarlo. E chiaramente vale anche il contrario. Attenzione, c’è tantissima musica il cui fine è solamente più “consolatorio” o di semplice intrattenimento, ed è giusto che esista anche questo, eh! La frase riflette il paradosso, di cui già parlava uno scrittore francese di cui al momento mi sfugge il nome, che parlava del fatto che “il mondo avrebbe bisogno di pura arte inedita e fine a sé stessa” Rimane però il problema del sostentamento! (ride)
Il nostro chiaramente era un calembour, un gioco di parole, ma penso che, come è stato dimostrato dai maestri veri, non certo noi, da quel Nobel a Bob Dylan, che pure ha fatto storcere il naso a qualcuno, la canzone, ed il suo testo, sono in effetti delle invenzioni letterarie, oltre che musicati, ma il punto è quello. Premiando Dylan si è dimostrato esattamente quanto anche la canzone, ovviamente le sue in particolare, sia una invenzione letteraria a tutti gli effetti, una canzone- flusso, con una semantica mai sentita prima. La canzone può diventare poesia, c’è un rapporto molto stretto. O quantomeno, da Dylan in poi sicuramente.
Chiaramente stiamo parlando di qualcosa riguardante la musica popolare, tralasciando, per dire, i libristi d’opera, che tiravano fuori delle vere e proprie opere letterarie. Poi il “non sprecare una canzone” fa sempre parte del paradosso di prima: spesso ci diciamo che le canzoni sono nostre, potenzialmente potremmo scrivercele, registrarcele e sentircele solo noi. Ecco, in questo senso potrebbero risultare sprecate, anche se, come detto, darebbe vita ad un paradosso: sono creazioni comunque nostre, volendo si potrebbe decidere di non sprecarla non facendola uscire. O l’esatto contrario, ecco. In realtà lo voglio intendere in un altro modo: se noi facessimo uscire qualcosa che non ci sentiamo di far uscire, e lo pubblicassimo per rispondere a fan o mercato, che sono due cose in un certo senso intercambiabili, ecco, in quel caso sarebbe una canzone sprecata.
La stai mandando fuori per accontentare qualcuno e già quello basta per sprecarla nonostante tu la stia mandando fuori. La canzone che ritieni talmente personale da non voler pubblicare o, come ci è successo, che tieni in serbo per altri momenti, che rimane allo stato di bozza non è sprecata, in quel caso lì assolutamente no.
“L’ultima casa accogliente”, al di là delle sonorità presenti, è un disco da “maneggiare con cura”, molto fragile. Andrea riesce a cogliere perfettamente anche i vostri bisogni comunicativi o sbaglio? Facendo questo mestiere, credo sia la vostra unica forma di comunicazione, o quantomeno quella che vi riesce meglio: come riuscite, poi, ad incanalare questa energia nelle canzoni?
Hai proprio ragionissima, è esattamente così. Andrea si pone in una sintesi ottima fra quello che è il percorso individuale e quella che è la strada comune, riesce ad oggettivare l’arte, come avrebbe detto la mia prof di italiano, a trovare il punto comune fra il personale ed il pubblico. Sottopone a noi i testi, ed ogni volta rispecchiano esattamente quello che avremmo voluto dire. E’ chiaro che c’è molta simbiosi, anche perché è da molto tempo che ci conosciamo, ed alla fine diventiamo un qualcosa di connesso. E’ molto bella come cosa. Sul fatto del disco da maneggiare con cura… forse maneggiare con cura no.
Però ascoltare con cura sicuramente sì! E’ un lavoro che ha bisogno di qualche ascolto più ripetuto. Comincia con “Catrame”, che è un pezzo 100% Zen Circus, riconoscibilissimo. Altri brani hanno bisogno di chiavi di lettura diverse, di ragionarci un po’ sopra, anche. Anche perché lo abbiamo provato e suonato veramente tanto, ed è una cosa che affiora e si coglie ascolto dopo ascolto. Poi, ripeto, fra di noi c’è una coesione che è notevole, e sfocia nel miracoloso, non sono poi molti i progetti che sono durati così tanto!
“2050” è uno di quei pezzi che definirei “futuribile”, nel senso che non so quanto effettivamente si allontanerà dal corso delle cose, ecco. Eppure avevate quasi paura che queste canzoni “scadessero”… e l’immortalità di un brano?
Ci crediamo assolutamente! Temevamo che scadessero rimandandone l’uscita, avevamo solo paura che perdessero concettualità. Chiaramente l’album è stato registrato durante questo anno così problematico, per cui avevamo il problema di quando far uscire questo benedetto disco. Avevamo pensato verso settembre: scartammo quella data perché ci dissimo “No, magari c’è ancora la pandemia. Facciamolo uscire a novembre, che siamo più tranquilli.” La frase fu esattamente quella lì! Poi abbiamo visto che a novembre la situazione si stava intrecciando di nuovo, ma temevamo che pezzi scadessero perché un disco è come una polaroid: fotografa il momento in cui è una band, è qualcosa che cristallizza tutto.
Per cui farlo uscire nel 2021 avrebbe comportato una sua scadenza rispetto a noi. Stiamo parlando di un lavoro i cui brani sono quasi tutti venuti fuori tra febbraio e marzo del 2020. Poi sul fatto del futuribile, beh… il testo di Andrea è volutamente ambiguo, poi il titolo l’ho proposto io, ho pensato che si completassero a vicenda. Sì, è riferito ad un futuro opinabile, che chissà quando si verificherà. Poi, tornando alle date di scadenza, ecco su “2050” la data di scadenza ce l’ho messa sopra io! (ride)
Il “sorridi ancora piccola Gesù” di “Bestia rara” mi ha colpito come, a suo tempo, fece De Gregori con “L’agnello di Dio”, avete totalmente ribaltato la famosa morale dilagante. Ancora non vi ha lapidati nessuno? E, secondariamente, come avete deciso di riprendere quella storia lì?
(Ride) No, no, ancora no! E poi non dimentichiamoci che la donna mal vista, se vogliamo essere veramente esegeti, c’è anche nel Vangelo, eh! Chiaramente quella frase è un po’ fortina, sì, ma ci sembrava quella più adatta per testimoniare la crocifissione- più strettamente morale- che capita ad alcune persone. E’ in senso figurato, è per Filomena o chi per essa, perché nel pezzo c’è anche Filomena, ma non parla solo di Filomena. Figurativamente, però siamo lì: Filomena è un’altra Gesù che viene immolata per espiare i peccati della comunità.
Poi se andiamo a vedere il documentario che racconta della vita di questa ragazza, scappata da un paese e da una società che la rifiutava e la riteneva colpevole di tutto, ed anche scappando non è riuscita a trovare pace, beh… è una vera e propria crocifissione. Poi, sul come abbiamo deciso di riprenderla… ti dirò, siamo sempre stati- tutti e tre- molto interessati alla documentaristica, e spessissime volte ci scambiamo consigli sui vari documentari da vedere. Ci concentriamo, spesso, su quelli a sfondo sociale- civile perché siamo sempre molto interessati alla società ed a una certa Italia ancora precocemente catodica, se non addirittura precatodizzata. E ci siamo imbattuti in questo documentario sulla vita di questi due ragazzi e siamo rimasti molto colpiti.
Poi, parallelamente, Andrea ha sviluppato la canzone, ed è saltata fuori l’associazione con Filomena e col mettere la sua voce narrante, che è stata una cosa che è venuta dopo, per completare il discorso, ecco. All’inizio, ricordi il pezzo, c’era questa base musicale un po’ orientata all’Oltralpe, un po’ French. Poi ci sono state messe sopra le parole. Ed, appunto, dopo di quelle, in conclusione, è stato aggiunto questo tocco di cinema veritè, diciamo così, in omaggio alla nostra passione per il documentario sociale.
“Ciao, sono io”, oltre ad avere una parte musicale fantastica, parla anche di provincia polverosa. Fare i musicisti in quelle condizioni, almeno agli inizi, non vi ha fatto passare per “bestie rare”?
Sicuramente. Difatti, come ben sai, questo tema della fuga dalla provincia e del ritorno ad essa l’abbiamo affrontato tantissime volte, “Pisa Merda” è l’episodio più esplicito, ecco. Ma ne abbiamo parlato anche in “Andate tutti affanculo”, il video de “L’anima non conta” è girato tutto nelle nostre zone del cuore, in quella provincia malefica nella quale abbiamo circolato per anni. Sempre con quella sensazione che da un lato è opprimente, ma dall’altro lato è piena di voglia di riscatto e di voglia di andare a vedere cosa c’è fuori.
Certo che siamo stati visti come bestie rare: un paradosso che noi citiamo sempre è che nel 2000 gli Zen erano considerati degli scappati di casa che si erano montati la testa, nel 2021 siamo degli scappati di casa che si sono montati la testa! Quello lì è l’ambiente di un paesone, perché Pisa è quello, non so se sei mai stato, ma sarà due/ tre quartieri di Palermo messi insieme. Forse. Chiaramente è uno di quegli ambienti nei quali “reciti” il ruolo che devi avere, quello del “figlio di…” del “parente di…” quello che “il su’ babbo fa questo…” e se vuoi far qualcos’altro “ma cosa vuoi fare? Ma dove vai?”. A noi, ovviamente, un sacco di volte i classici “Ma cosa ci vai a suonare a Parma, è lontano!”, “Ma cosa andate a Roma a suonare?” e così discorrendo. Di certo l’incoraggiamento non è la peculiarità della provincia.
Però ci siamo spesso soffermati a riflettere anche su un altro aspetto, che ha a che fare con la peculiarità dell’essere nati in provincia, perché probabilmente se fossimo nati da qualche altra parte avremmo fatto un tipo di musica completamente opposta. Se fossimo cresciuti in uno di quei grandi centri che sono quasi delle fucine di tutto, magari non avremmo nemmeno fatto musica! Anzi, spesso è proprio dalle zone meno centrali che possono venire fuori delle cose più personali e più particolari. Guarda, si parlava di Palermo: Il Pan del Diavolo non poteva che uscire fuori da una grande città, c’è una tale specificità, una tale particolarità nelle registrazioni ed anche nelle idee ricorrenti, che vengono solo da certi tipi di estrazione.
O anche Vasco Brondi, se non fosse cresciuto a Ferrara, con zero prospettive, sicuramente sarebbe venuto su un’altra persona. O i Tre Allegri Ragazzi Morti direttamente da una Pordenone che a suo tempo era stata la cattedrale del punk ma che è sempre stata abbastanza defilata dalla musica. Poi, anche esulando dalla musica, ho sempre visto un sacco di gente stramba, anche bislacca, che contribuisce a “creare” la provincia. Sicchè… in qualche modo la provincia ti dà la possibilità di approfondire le tue fissazioni con più calma, più tempo e forse anche più tenacia. E’ un ruolo disgraziato, questo, ma al contempo privilegiato, ne parlava anche Pavese.
Hai già citato tu stesso Vasco, ed io ci ritorno: la famosa “prateria infinita, piena di pericoli, strapiena di vita”, di cui cantava in “Qui”, è una fotografia abbastanza nitida della provincia? Immagino anche che l’incontro con tutta questa umanità varia sia stato motore di crescita ed, al contempo, fonte di ispirazione, no?
Eh, decisamente sì. Anche perché negli anni più “formativi” della band abbiamo macinato tutte le province possibili ed immaginabili, eravamo dei veri piazzisti! A volte ci piace definirci “testimoni di Geova dell’indie rock”! (ride)
In quegii anni siamo andati a bussare veramente a tutti, e questo ha arricchito di aneddoti e possibiità e visioni un sacco di cose. Il fatto di aver fatto, ormai, più di mille date ci ha arricchito a un livello enorme anche sotto l’aspetto della comprensione umana di questa “prateria”, per dirla come Vasco, di questo paesone, di questo Appennino che è tutto uguale da cima a fondo, pieno di continui “temi” sempre uguali, queste statali che ritornano sempre identiche le une alle altre. Guarda, l’altro giorno ho trovato una nota che avevo scritto durante una sosta ad un bar su una statale in Veneto, ed anche solo fermarsi in questi posti, guardare, cercare di interpretarli, capirli, trovare una connessione “empatica”o di comprensione di vita, cercare delle esperienze di verità all’interno di questi spostamenti sicuramente dà molto.
“Prendi bene la mira, non ti puoi sbagliare, sono quello sul palco là in mezzo a cantare”: forse è uno dei pezzi più personali di Andrea, però quel verso mi ha fatto pensare a Dimebag Darrel… c’è effettivamente un omaggio o è solo un mio film?
(Ride) Temo che sia un tuo film! Ma, in realtà, incidentalmente, è una cosa che ci si può cogliere senza dubbio. No, quella lì era una riflessione un po’ paradossale sul discorso dell’emittente e del ricevente, di chi dice le cose e chi le ascolta. “Prendi bene la mira” non si riferisce tanto ad una possibilità di aggressione fisica, quanto al fatto che tu ti aspetti da me delle cose, ti aspetti una comunicazione, mentre invece la canzone parla proprio di questa difficoltà di comunicazione e di provare un sentimento. “Prendi bene la mira” perché ti focalizzi su di me, io sono quello sul palco, quello da cui ti aspetti una risposta, ma in questo preciso momento la risposta non ce l’ho.
Poi c’è un altro gioco di parole, una chicca, quando parla del “sedicesimo di me”, come a dire che tu di me conosci molto poco, e dopodichè lì i piatti di Karim entrano in sedicesimi. Lì ci siamo divertiti noi a voler mettere una cosa del genere, che è davvero quasi nascosta. Ci piacciono molto questi inside joke. E comunque è una domanda che conferma quanto l’interpretazione possa essere soggettiva: te c’hai visto Darrel, ma ci si possono vedere mille altre cose.
Passettino indietro: Sanremo. Intanto lo rifareste o è una cosa che si fa una volta nella vita e poi basta?
Ma anche domani! Assolutamente sì!
Quindi vi siete proprio divertiti…
Ma ci mancherebbe! Poi, figurati, eravamo noi, con la nostra etichetta, il nostro booking. Poi arriviamo lì e ci troviamo Motta, Brunori, Nada, i Calibro 35… praticamente il Primo Maggio! Bellissimo, è stato come fare un gran campeggio con gli amici! E poi ci trovi anche quelli che non ti aspettavi, ci siamo trovati benissimo con Nek, ad esempio. Anche Achille Lauro ci ha fatto una bellissima impressione, per dirti. Nulla da dire.
Chiaramente è una kermesse che non è la Sagra della salsiccia, è tutta un’altra cosa, è ovvio. Poi, a vederlo come concerto, beh… non è neanche un club grandissimo, l’Ariston, eh. C’è lo sgomento perché sei in televisione, in un contesto che poi sconfina nel glamour, nel costume e società, in quelle cose da tg. E’ una giostra assurda, strana, marcatamente nazionalpopolare. Che alla domenica culmina col passaggio, obbligato per contratto, a Domenica In.
Poi anche il fatto che i direttori artistici degli ultimi anni abbiano cambiato il format e la concezione stessa del Festival, essendosi accorti che rischiavano di finire per essere visti da una singola fascia di pubblico. E invece, intelligentemente, hanno proposto uno spaccato un pochino più rispondente agli ascolti reali di tutte le fasce d’età, e questo si è visto in termini di ascolti. Guarda, una cosa che dico sempre: mia nipote non s’è persa una serata del Festival, ma non perché ci fosse lo zio a suonare, ma perché c’erano Irama, Lauro, Rancore. Ed è giusto che sia così. Così come è giusto che ci sia la parte di musica leggera, che è un qualcosa che in Italia c’è sempre stata.
Certo, sconfina più nel settimanale, in certi momenti diventa davvero settimanale da parrucchieri, per capirci, però non bisogna prendersela troppo a cuore, alla fine è un gioco: si partecipa e basta.
Anche perché poi noi fra l’altro siamo davvero molto poco competitivi, ecco perché lo abbiamo preso come un gioco, anche la stessa parata che fecimo: era un modo per buttarla un po’ in vacca, per fare un po’ di baccano. Anche gli stessi fan l’hanno presa benissimo, a parte la gelosia di qualcuno, che ci sta sempre, il classico “Sono il mio gruppo preferito, se li scoprono tutti poi come si fa”. Beh… si fa come si è sempre fatto: se vuoi venire ai concerti ci vieni, la vita nostra, quella vera, sta lì. Io ho un unico rimpianto, in realtà: speravo di arrivare ultimo. Così, a metà, né carne né pesce non è che ci abbia fatto impazzire…
E poi la vostra generazione, e prima ancora quella di Marlene Kuntz, Afterhours, La Crus, Perturbazione, stanno cominciando a raccogliere alcuni frutti- in termini di attenzione a questi ambienti- un po’ dopo, e per farlo definitivamente siete passati dal Festival: c’è sempre troppa poca attenzione verso la musica indipendente o qualcosina comincia a muoversi?
Penso che sia fisiologico che tutti quelli che hai citato ci siano arrivati un po’ dopo, anche perché, appunto, venendo da un certo tipo di circuito era veramente improbabile che ci si approcciasse a noi prima di un certo momento storico. Poi, è chiaro, ognuno lo ha fatto con le sue modalità, per esempio la “manovra” degli Afterhours l’ho capita dopo, essendone stati parte, il famoso “Il Paese è reale”: quella idea lì, partecipare facendosi latori di un messaggio di diversità musicale, fu una bella idea, giusta. Fra l’altro tempo fa lessi una intervista nella quale Agnelli ripercorreva quel percorso lì, e faceva anche ridere, perché diceva che loro erano andati lì convinti di portare la decadenza, mentre invece si resero conto di essere dei novellini della deboche.
Sai, forse non è che ce ne voglia di più, di quella scena lì. Ci vorrebbe direttamente un festival corrispondente a quella che è la realtà degli ascolti- non gli streaming, ovviamente- e penso che ci stiamo arrivando. Si nota dalle edizioni precedenti: prima c’era una certa quota, piano piano se ne sono andate sbloccando altre di altri generi, per tutte le fasce di target. Mi sembra che alla fine i conti tornino, sempre nei limiti di una trasmissione per la tv generalista: è chiaro che la televisione non potrà mai diventare il MiAmi, è logico, non è la sua funzione, ed anche volendo non potrebbe farlo, per mille motivi, da quello dei tempi a quello delle modalità.
Però, ecco, pensandoci, più che un altro Sanremo (o un Sanremo altro) a noi manca proprio un bel festival come il MiAmi o lo Sziget o il Primavera o il Lollapalooza. Ma manca la volontà politica di farlo, è chiaro che a certi livelli c’è bisogno anche del supporto delle istituzioni. Le maestrane, ed il Primo Maggio lo dimostra, ci sarebbero: il Concertone è una cosa che abbiamo solo qua, nemmeno in America si sognano di fare una diretta televisiva di quella portata. E noi qua ci riusciamo tranquillamente. Però la politica dovrebbe capire, una volta per tutte, che la musica crea lavoro e crea utili enormi: in Ungheria lo Sziget gli vale qualche punto di PIL, per capirci.
Qua le istituzioni lo capiranno sempre troppo tardi, e la situazione attuale ce lo sta facendo vedere. Il caso del Rototom, che è dovuto fuggire dal Friuli in Spagna, dove fa più di qualche centinaio di migliaia di persone, è abbastanza emblematico: avevamo il festival reggae più grosso d’Europa e lo hanno cacciato.
Altro passetto indietro: il romanzo! Praticamente avete raccontato una parte di storia d’Italia, con le sue pulsioni, i suoi fermenti ed i suoi controsensi: se vi dicessi che lo porterei in classe per parlare di quel periodo, come porterei Linea Gotica dei Csi per parlare del crollo dei Balcani? Lo considerate, oltre che un romanzo di formazione, soprattutto musicale, anche un romanzo storico?
Beh, ti ringrazio intanto! Poi sì, il concetto originale era esattamente quello del bildungsroman, poi se il romanzo di formazione, incidentalmente, è diventato anche uno spaccato storico, ne siamo più che contenti. Anche perché è successo a tanti altri romanzi, molto più illustri del nostro, magari avesse la stessa sorte! Portarlo nelle scuole sarebbe qualcosa di incredibile, non oso sognare così alto. Però ci sta che il romanzo di formazione diventi specchio di un’epoca.
E’ chiaro che noi nella narrazione non potevamo esimerci dal mettere gli agganci ed i riferimenti temporali, dovevamo far capire a quali travagli ed a quali trasformazioni andasse incontro il “paese che sembra una scarpa”. Anche perché noi per primi ci siamo trasformati con lui, siamo sempre le crisalidi di noi stessi, ed il bello è che poi questo sciagurato paese ha sempre avuto sullo sfondo qualcosa da raccontare.
Ancora più indietro: anni 2008/ 2009, prima Villa Inferno e poi Andate tutti Affanculo. Avete costituito quasi una svolta nell’ambiente, siete stati i primi ad “addolcire”, in qualche modo, lo spirito musicale, penso che in quegli anni uscivano gli Zu, gli Amor Fou, i Ministri, , Canali, Il Teatro degli Orrori ed i Devocka, tutti con album dai toni abbastanza scuri, decisamente più arrabbiati. Sarebbe sbagliato dire che voi non eravate meno arrabiati, ma, semplicemente, più “agrodolci”?
No, per nulla. Hai detto bene, sono tutti dischi che vengono fuori in un momento molto peculiare per la musica indipendente, e si è visto a posteriori, dando la stura a tutta una serie di proposte degli anni a venire. E’ chiaro che noi siamo sempre stati “allegramente fatalisti”, quindi tutta la nostra angst era, in qualche modo, mediata da aspetti anche un po’ sardonici, siamo figli di quell’ambiente punk- rock che della critica sardonica e graffiante faceva la sua ragione di vita. Quindi prendevamo le cose sempre con questo aspetto un po’ ambivalente e paradossale, per cui in noi c’era sì la rabbia, ma c’era anche un grande scazzo.
Sì, come dicevi te sono dischi che sono figli di una epoca comune, dalla quale non potevamo non essere permeati: quando ci trovavamo a preparare “Villa Inferno”, lì a Ferrara, eravamo praticamente circondati… da una parte stavano mixando Il Teatro degli Orrori, da un’altra parte c’era Brondi che finiva i demo del primo disco, dall’altra ancora i Tre Allegri Ragazzi Morti che masterizzavano “La Rivoluzione Sessuale”. E’ logico che noi eravamo nel pieno e nel bel mezzo di questa transizione. E sentivamo, chiaramente, i cambiamenti che stavano accadendo a livello di pubblico, di festival e di tutto. E’ stato un momento di svolta. Per noi e per tutto l’ambiente.
Ultima! Rimaniamo sui colleghi: un pezzo, o anche solo una linea di basso, che ruberesti ad un collega o che ti sarebbe piaciuto suonare.
Questa è bella! Allora, linea di basso sicuramente ne avrei rubata qualcuna a Kim Deal dei Pixies, ma credo di avergliene già rubate abbastanza! (ride) L’ho saccheggiata sufficientemente, ed è una delle mie massime ispirazioni, anche se col disco nuovo s’è sentito che sta cambiando qualcosa, che c’è più groove, ci sono più appoggi rispetto ai drittoni dei primi tempi. Da un collega italiano… guarda, m’hai messo in difficoltà! Ma credo qualcosa del Teatro degli Orrori. Però bisognerebbe costruirci tutto un intero disco attorno, ci vogliono i testi del Teatro per sostenere quelle linee di basso lì, ci vuole un monolite dietro, senza non avrebbe senso, sarebbe quasi fuoriluogo. Però mi sarebbe piaciuto avere la batteria di Alessandro Fiori, quello sì. La batteria di Alessandro Fiori penso che non ce l’abbia nessuno. E quella non riesci a duplicarla in nessun modo, neanche a piangere!
Articolo del
14/01/2021 -
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