Chi mi conosce nella vita “vera”, oltre le righe dei miei articoli, sa perfettamente che, quando sono in giornata estremamente sì o estremamente no, adoro, anche per mia indole carognesa e cinica, supercazzolare i miei interlocutori. Tipo sgaravazzi come se fosse antani di articolone.
Sono un super fan di “Amici miei” e, più in generale, di Monicelli. E la cosa forse più bella di quel film, sicuramente fra le più poetiche, ve la dico adesso: “Che cos'è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d'esecuzione”. Per quanto mi riguarda, però, il genio è anche un’altra cosa, e Monicelli lo sapeva almeno dodici volte meglio di me: è sovversione. Non quella politica. O meglio, quella che diventa “politica” (intesa come “civile”) col senno di poi, ma che nasce come bisogno, esigenza primaria di sparigliare le carte in tavola, di essere deflagrante, squarciare il velo di Maya del perbenismo. Monicelli, appunto, questo lo aveva capito perfettamente. E non perdeva occasione per raccontarlo.
Ma torniamo un attimo al concetto di “genio”. C’è un artista che incarna perfettamente buona parte degli aggettivi che il Perozzi (guarda caso un giornalista, ndr) utilizzava per definire le trovate “d’i Necchi”. Sto parlando di Lucio Leoni, che di quella sovversività deflagrante è eccellente narratore.
E dopo la mia (scontata) divagazione iniziale, vi lascio a quello che ci siamo detti. Per capirlo meglio dovreste ascoltare il nuovo album di Lucio, che s’intitola “Dove sei Vol.1”.
Manco a dirlo, l’ho fatto a posta: l’album lo dovreste ascoltare comunque, perché è un mezzo (e mai aggettivo mi sembrò più azzeccato) capolavoro. Magari con una intervista a stimolarvi (spero), lo ascolterete per davvero.
La cosa che mi ha colpito di più è che è un disco assolutamente “vivo”, contemporaneo ed attuale. Ma hai finito di registrarlo ad agosto 2019. E quindi di scriverlo anche abbastanza prima, immagino. Secondo te, e quindi in base a quanto ti conosci, la situazione che abbiamo vissuto e stiamo vivendo ti avrebbe fatto scrivere o pensare qualche pezzo in modo diverso?
Grazie, mi fa molto piacere! Sì, la scrittura si è conclusa più o meno per giugno. Beh, credo che, per chi scrive, al netto del dolore e delle tragedie che stiamo vivendo, sia uno degli aspetti più affascinanti di questo periodo, nel senso che comunque stiamo attraversando una fase epocale, e che, in qualche modo, trasformerà proprio il modo di interpretare il mondo, anche in vista degli sconvolgimenti geopolitici che arriveranno. Per cui tutto quello che è stato scritto prima qualche volta cambia proprio di senso, qualche volta cambia semplicemente segno. Per cui rileggere il proprio repertorio adesso è molto interessante. Per esempio, su ‘sto disco qua c’è un brano, che è “L’Atomizzazione”, che fa il punto di una serie di passaggi centrali della mia generazione, dalle Torri Gemelle al cambio di sistema economico, che però, ovviamente è “carente”, perché non prende in considerazione la pandemia. E quindi quel brano lì perde un po’, o comunque ha cambiato completamente sistema di valori, ed è buffo.
Altra domanda sulla stessa riga, che è più una mia curiosità, dal momento che ho adorato l’idea stessa di quel progetto: Khabum. Quanto può essere, se vogliamo, anche costruttivo misurarsi con una fase creativa, immagino, completamente diversa da quella abituale?
E’ incredibile! Io, in partenza, ero molto spaventato. Poi ho anche un processo di scrittura molto lento, ho una parte di revisione del testo che è successiva all’ideazione, ci torno davvero su molte volte. Per cui, lì per lì, pensavo davvero che fosse molto limitante, ed ero spaventato dal fatto che sarebbe uscita fuori una roba immatura, in qualche modo. E invece è molto interessante, anche perché sai che sei ripreso, e c’hai l’adrenalina della performance, in qualche modo sei anche “performativo” mente cerchi di farti venire l’idea giusta. E in realtà, paradossalmente mi ha tirato fuori una capacità di esposizione che non pensavo di avere. E’ stata un’esperienza incredibile, dal quel punto di vista lì.
Il disco s’intitola “Dove Sei”, in modo netto ed affermativo. Però la prima strofa de “Il fraintendimento di John Cage” inizia con un “Dove sei?” interrogativo. C’è un continuo ed incontrollato rincorrersi fra prese di coscienza e domande. Nei momenti di buio creativo, o, ovviamente, di composizione ti aiuta di più prendere coscienza o farti domande a raffica, o una è la conseguenza dell’altra?
Eh, credo che siano due cose concatenate. Penso che la presa di coscienza è un momento, se vogliamo, catartico, che ti avvicina in qualche modo ad un punto di soluzione. Che però, in realtà, non fa altro che aprire tutta un’altra categoria di domande che fino a quel momento non ti eri posto. Per cui per me, in realtà, è un processo continuo, questo, nel senso che quando, per sbaglio, arrivo ad un punto di coscienza, a quello che mi sembra cosciente, in realtà quello che succede è che si apre un ventaglio di nuove domande, che fino a quel momento non avevo mai messo in campo. Per cui è un continuo domandare.
l Sorpasso” (che è il mio pezzo preferito dell’album, dinamitardo al punto giusto, ndr) come la “Quelli che ben pensano” di questi anni, ed anche come un antidoto per l’ipocrisia … che dici?
Mi piace questa definizione! Wow, andiamoci piano, che sono paragoni grossi questi! Io sono formato su quella canzone, praticamente. Lì c’è una scrittura immensa di un Frankie Hi- Nrg forse al massimo della forma, e poi c’è l’eleganza di Riccardo (Sinigallia, ndr)che fa una cosa pazzesca, trasformando il pezzo, quel rap politico, con un’ apertura melodica strepitosa. Insomma, magari arrivare a quelle vette lì! (ridendo) Diciamo che sono anche in ritardo, perché erano più giovani di me quando hanno scritto quel pezzo lì!
Sei riuscito a far diventare San Gennaro quasi un simbolo di resistenza al grigiore, di pienezza nel vivere la vita. Mi verrebbe da chiederti come hai fatto. Ma ti chiedo come ti è venuto in mente?
Ma guarda, in realtà è stato un puro caso. Spesso mi capita di imbattermi in aneddoti, anche il semplice “Lo sapevate che” della Settimana Enigmistica. Ecco, ogni tanto mi capita di leggere questi brandelli di informazione strani, che però aprono tutta una serie di riflessioni. Mi ero intrippato sulla questione dello scioglimento del sangue, per una pura curiosità mia. Per cui mi sono andato ad informare ed ho scoperto che non è una cosa che avviene una sola volta all’anno, anzi… succede tre volte l’anno, ed addirittura, se ce n’è bisogno, San Gennaro viene interpellato anche più volte. Per cui mi sembrava una metafora abbastanza interessante per rappresentare il bisogno, quasi quotidiano, che abbiamo di dare un senso a tutta una serie di fenomeni ed avvenimenti che magari non riusciamo a spiegare. Mi sembrava un passaggio molto lineare su questo bisogno che ha l’essere umano di trovare delle risposte e di indagare quello che è un po’ slegato dal “terreno”
La “fantastica” da applicare alla logica forse non la possiamo creare di sanapianta, ma possiamo quantomeno allenarla, magari tramite la stessa scrittura, che a seconda di come viene trattata, si può rivelare estremamente creativa: a cosa può portare un “allenamento” di scrittura?
Ci sono degli esercizi di “fantastica”, quello è un omaggio a Gianni Rodari, in qualche modo. Per cui, seguendo un po’ il percorso di quell’intellettuale lì, scopri che ci sono dei veri esercizi di allenamento alla fantastica, all’apertura di determinate categorie mentali che spesso ci incastrano su ragionamenti logici che non per forza di cose poi ci danno l’opportunità di fare quel passetto oltre e vivere con più leggerezza e con più colori quello che ci sta intorno. L’allenamento è necessario, e la scrittura in questo caso è un passaggio centrale, effettivamente: quando ti accorgi che c’è una possibilità di gioco infinita con le parole, anche perché poi siamo in Italia, che spesso, in musica, è un problema… l’inglese ha una musicalità ed una facilità diverse, ma dal punto di vista del gioco lessicale l’italiano è incredibile.
Sempre su “Treno”… nel presskit che mi è arrivato parlavi di come metrica e fantasia siano due cose ben distinte. E se ti dicessi che in quel pezzo, nella sua fantasia letteraria e nella sua metrica che sembra davvero un treno sui binari, sei riuscito a fonderle alla perfezione pur mantenendone ben distinte le rispettive peculiarità?
Dico che mi fa molto piacere sentirmelo dire. E che quello è poi il gioco finale, quando “nascondi” il trabocchetto del gioco letterario, poi metti da parte lo sfondo in qualche modo: porti la testa a concentrarsi sull’esperimento lessicale, sul gioco lessicale. Ed in realtà, poi, lo sfondo sta componendosi e tu neanche te ne accorgi. Per cui quando arrivi alla fine, quando entra in gioco anche il fattore dell’incastro musicale, senza quel lavoro non arriveresti a quel passaggio lì, e secondo me è la meraviglia della parola in musica, quando arrivi al momento in cui il rullante improvvisamente diventa il treno sui binari, allora ricolleghi tutto. E quella è in qualche modo la forza finale del fatto che non stai lavorando solo sulla metrica, ma che sta entrando in gioco anche il linguaggio musicale, che finisce per aprirti prospettive ancora più ampie.
Di solito, per ricordare come eravamo e cosa dimentichiamo di essere stati si usano le barche, che sono diventate praticamente un topos letterario. Come mai tu hai scelto una mongolfiera, che è una similitudine tanto poetica quanto poco scontata?
Stavo cercando un modo per superare i confini senza che questi confini avessero una tangibilità. Oggi il concetto di confine ha un rapporto molto crudo, molto realistico con la realtà che viviamo: si alzano muri, stiticamente. I capi di stato alzano dei muri, santa miseria… è una cosa assurda! Per cui mi interessava portare l’idea di “confine” a quello che è in effetti: una linea immaginaria, come quella che leggevamo sugli atlanti, quando eravamo bambini, alle elementari, quando ci dicevano che il confine è una linea immaginaria che separa degli stati. Anche perché, poi, dal punto di vista fisico non esistono. Lo strumento che l’essere umano si è inventato per volare con più leggerezza, per essere più sganciato dalla fisicità è la mongolfiera, perché lavora sui bilanciamenti di aria, idrogeno ed ossigeno. E mi sembrava il contatto perfetto per sganciare l’idea di confine da una cosa fisica e reale.
In “atomizzazione” parli, in qualche modo di distanze generazionali, colmate molto maldestramente dai social e dall’utilizzo, ti parafraso, defecatorio che se ne fa. Tornare alle enoteche è una sconfitta, in qualche modo, di un progresso ancora acerbo o è una sublimazione di questo progresso, una sintesi perfetta fra il digitale, che può servire per prendere appuntamento in modo più comodo, e l’insostituibile analogico “vocale”?
Wow, bellissima domanda. Tornare all’enoteca non è mai una sconfitta, perché c’è il vino. Sui social il vino non c’è. Nel rapporto umano il tornare al contatto, e questi due mesi dovrebbero avercelo fatto capire con perentorietà, è un discorso centrale. Detto questo, è evidente che il digitale ha una potenzialità infinita e meravigliosa. Diciamo che quello di cui ci accorgiamo, e quello che affrontiamo in maniera più interessata è il passaggio forse più triste e più banale, che è proprio quello del social. Per cui, secondo me, il ritorno all’enoteca può aiutarci a riavvicinarci alla potenzialità dello strumento qualitativo, che in realtà è internet, o il digitale in termini assoluti.
Hai scelto l’atomizzazione per raccontare una ritirata, anzi, richiusura, dell’uomo su se stesso. C’è, nella scelta del termine, decisamente “disumano”, una critica alla fede cieca nella scienza, all’ “ipse dixit” che spesso si utilizza con gli scienziati? Si capisce che il nucleo (è proprio il caso di dirlo) fosse arrivare al concetto di “zerovalente”, ma la scelta è comunque interessantissima. Per dire, io avrei usato, probabilmente, la monade…
Mah, guarda, non c’è quella critica là. Anzi, sono uno che ascolta con molto più interesse la scienza rispetto alla politica, soprattutto quella di questo tempo. Quello che mi interessava fare con quel gioco di “metaforizzazione” era concentrarmi sull’uso che si fa delle parole: “atomizzazione” è un termine che è stato usato moltissimo negli ultimi anni, per descrivere e raccontare una sorta di chiusura dell’uomo su sé stesso, citandoti. E quindi il passaggio che mi interessava fare andando a tirare fuori il passaggio scientifico dell’atomizzazione, che è un termine diventato di uso comune ma di cui, a parte gli scienziati, poi tutti disconoscono l’origine, era quello: soffermarci sull’utilizzo che facciamo delle parole. Tant’è che negli ultimi tre mesi non abbiamo fatto altro che parlare di “guerra”, rispetto alla pandemia. Era esattamente quello il passaggio: ok, parliamo di atomizzazione, ma che vor dì? Cerchiamo di capire perché utilizziamo questo termine qua, e quali sono poi le sfumature che possono uscire fuori dalla comprensione del termine. Perché se riesci a comprendere il termine, riesci a comprendere anche la condizione che vivi, se parli di atomizzazione.
In “Mi dai dei soldi” mi ha colpito molto il discorso dell’accattonaggio: sicuramente le scelte della politica non aiutano a staccarsi da questo rischio. Che si può fare per evitarlo?
Mah, penso che da questo punto di vista qua bisogna cominciare a concentrarci sul fatto che siamo una collettività. Bisogna concentrarci sul fatto che qualsiasi tipo di vittoria, chiamiamola così, dal punto di vista del riscatto sociale, del riscatto economico, di qualsiasi tipo di classe o categoria, è avvenuta perché ci si è uniti. E questo mi sembra anche un momento abbastanza prolifico per cominciare a considerarci, come tessuto del mondo dello spettacolo, un insieme e non, appunto, tante monadi che vagano sparse. Credo sia quello il passaggio che bisogna fare, bisogna cominciare ad organizzarsi come un collettivo, come esperienza condivisa di chi vive attorno al mondo dello spettacolo, altrimenti sarà difficile farci riconoscere i diritti base.
Questo disco lo definiresti, in qualche modo, una specie di manifesto politico o poetico?
Beh, faccio un po’ fatica a definirlo, anche perché ho sempre paura di passare per arrogante o presuntuoso. Sicuramente c’ho messo dentro tanto di questi aspetti, tanto del mio punto di vista politico e tanto di quello poetico. Poi, sai, sarà interessante fare i conti quando sarà completo, perché per adesso io lo definisco “mezzo disco”. Per cui mi interessa molto capire cosa verrà percepito quando arriverà la seconda parte dell’insieme, del tutto.
A proposito di seconde parti… se non sono già in programma nel Volume 2, con chi ti piacerebbe fare un feat? So che te lo hanno già chiesto, ma ascoltando l’album io ho pensato subito a Daniele Silvestri, un attimo dopo a Rancore ed i Negrita. Oltre a questo, come “nota di colore”, mi è piaciuto tantissimo il duetto con Francesco di Bella, che è un artista enorme, per quanto mi riguarda.
Sì, Francesco è gigante. Ha la capacità di dare profondità a tutto quello che canta, ed è rarissimo trovare artisti così. Poi, guarda, ti dico Alessandro Bergonzoni (*). Non c’entra nulla con la musica, e mi piacerebbe moltissimo inventarmi una qualche follia con lui. Sarebbe bellissimo.
(*) Segue, da parte del sottoscritto, una vera e propria nota di giubilo, ndr.
Ti piacerebbe, vista la tua forma canzone, se si parlasse di te come di un “cantattore”?
(ride) Sì, assolutamente sì! Mi sembra un modo molto bello di interpretare quello che faccio, poi sono uno molto legato al mondo del teatro, mi riempie di orgoglio quando mi avvicino o mi si avvicina a quell’esperienza là.
Articolo del
27/05/2020 -
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